St. Patrick

Io non so perché andai da lui. Il mio cuore, solo lui lo sapeva. Un rifugio così nascosto alla vista mia, delle mie mani, delle gambe che mi ci portavano, dei miei pensieri. Quale cuore, poi? Sono troppo grande per un cuore. «Perché è solo inganno. Chimica.», disse la mia pelle. Forse il cambio di stagione. Ma ci andai. Di nascosto da tutta me stessa, perché camminando pensai ad altro: al lavoro, al tradimento di una speranza, alla tristezza che mi aveva sopraffatto e che non avevo voluto ammettere. Una delusione da niente, se non l’ennesima sommata alle altre, in fondo. Ma, quella delusione, possibile che bruciasse così tanto da richiedere la ritirata? Come perdere l’equilibrio dopo una spinta e sentirsi sconfitti per quello, dopo giorni di combattimento a mani nude. Ci andai, insomma. E lui fu lì a guardarmi con quell’espressione benevola, quella di sempre, che non chiede mai «Dove sei stata?». Ho contato gli anni e i mesi e i giorni d’amicizia mentre andavo lì. Dove siamo stati, amico mio? Sempre qui, sempre l’uno accanto all’altro sebbene divisi, come due che si salutano con la mano da lontano e mentre lo fanno incedono con lo stesso ritmo in direzioni diverse, senza mai staccarsi gli occhi di dosso. Poi una volta distolto lo sguardo, eccoli, eccoci, di nuovo frettolosi nel tempo ciascuno di sé ad aggrovigliare progetti e speranze e cose da fare e soluzioni da trovare. Un passo in più per ogni giorno e un nuovo strappo da ricucire e la strada da fare e ancora costruire e salvare, senza sosta, lontani e diversi, come sconosciuti che si passano accanto. Ma quale tempo se non questo qui? Questo nostro, di sempre, come se il salutare con la mano ogni volta fosse solo un rito inutile per chi, nel profondo , non si separa mai. Quella sera andai da lui. Ci andai come andare a casa, anche se io non ho una casa. Sempre ricomincio, sempre cado, sempre sopra un filo, sempre senza dirmi che la mia casa ha il suo nome. Mi fu vicino subito. Da dietro il banco del bar quasi saltò. O forse non quasi, sì, mi pare che saltò per venire a stringermi. Non potevo giustificare ai miei pensieri, alla mia pelle, alle mie mani quell’abbraccio, così non chiesi il permesso a neanche una parte di me e mi arresi a lui come fosse respirare. Mi prese la mano e mi disse ridendo che ero buffa così truccata. Quei capelli così lisci e la pelle bianca, le labbra rosse di vetro colorato, come bambola in vetrina, a lui facevano sorridere nell’idea, condivisa, che la vita sia scegliere una maschera ogni giorno. La filosofia del travestimento chiara solo a noi che, un tempo, finivamo sempre per spiegare ai polli come si fa a volare.
«Chi eri oggi?»
«Non ricordo mi pare ci fosse un palco da qualche parte.» Ce n’è sempre uno, pensai.
Poi le lacrime così, senza piangere, come quando si è piccoli e si va da papà facendogli vedere la sbucciatura al ginocchio, senza dire una parola e senza smorfia, solo con le guance rigate. E con quelle lacrime così grandi che sembravano persino inventate. O forse invece proprio le inventai, solo perché me le asciugasse lui. Non è una domanda che ora voglio fare al mio cuore, ‘ché se fu un inganno quel che feci quella sera, per sempre così lo terrò. Gli dissi della ferita, ma si accorse che la cicatrice che gli indicai era troppo piccola per avermi procurato chissà quale dolore. Così aggiunsi altre ferite e tutte insieme divennero un male da curare. Lo curò. «Così poi potrai tornare a fare il verso del leone. O della scimmia, se ti fa più comodo.» Spavalderia e baldanza oggi, per le risa in pubblico di domani. «Perché non del pavone, allora?» Tutto fuorché un uccellino, certamente. «Sono venuta a farmi lisciare le piume», pensai. Me le lisciò e non aggiunse altro se non i baci. Mi portò fuori in cortile, nel retro del locale e quando mi prese per mano attraversammo i tavoli e gli sgabelli dove si brindava a San Patrizio, che diventavano silenziosi mentre passavamo noi. Nel tempo a lungo ci eravamo chiesti perché fossimo come un miracolo agli occhi della gente, fino al giorno in cui avevamo iniziato a sorriderne e basta, senza farci più domande. Fummo lì, a guardar da fuori le finestrelle colorate tutt’intorno e con la gamba, senza lasciarmi, come per dire «Sono qui dove sono sempre stato», sistemò a testa in giù le casse di birra così che potessimo sedere l’uno accanto all’altro. Volli nascondere il viso, subito quello. Infilarmi in un posto piccolo tra la linea ossuta del suo profilo e quel punto del collo da cui potevo sentirlo parlare piano senza riuscire ad ascoltare la voce. Solo quel vibrato che mi pare dicesse che ero bella di una bellezza che poteva vedere soltanto lui. Non lo disse. E così con la faccia piantata contro di lui, bofonchiai che avevo immaginato di sentirgli dire una cosa che non avrebbe detto mai. Sorrise e lo seppi perché mi spostò un po’ i capelli quella fossetta che mostra sulla guancia destra quando sorride. Una sola, come vuole la fisiognomica di chi fa sempre le cose a metà. In quella fossetta ci infilai le cose per cui ero arrabbiata, poiché lui me lo permise. E finii stremata, vittima come m’ero disegnata sotto i piedi di chi s’era approfittato di me, piangendo sulle sue labbra. Le labbra sul viso e i capelli e le mani e le ciglia e la pioggia, che non c’era, ma sembrava. Così quando le lacrime mi arrivarono alla bocca, ed eravamo così mischiati da non lasciarmi un solo fiato che fossi sicura fosse il mio e non il suo, gli dissi sottovoce che doveva ricordarsi di non baciarmi sulla bocca, ‘ché non era nei patti. Poi pensai che nessuno dei due aveva mai scritto neanche una delle regole che avevamo rispettato nel tempo. Ma lui aveva detto «Va bene». E io m’ero aggrappata ai brandelli di quel petto che sentivo battere, ridotto così da troppe botte prese nel tempo. Gli chiesi: «Ti ricordi quella notte di tanti anni fa, in cui ti chiesi di baciarmi e tu mi dicesti di no?» Poi aggiunsi: «Uno dei due, a turno, è sempre più saggio dell’altro.» Rise ancora e io, aprendo un occhio, attraverso le maglie del pullover che indossava, vidi la luce verde diffusa nel locale arrivare annebbiata a confondersi con l’incavo nelle due linee tra il suo naso e le sue labbra. E le labbra, quelle, dissero: «Eppure il meno saggio di noi due riesce sempre a convincere l’altro.» Le guardai, poi non potei guardarle più. E mi lasciai consumare piano, prima approfittando di quella distanza piccolissima nello sfiorarsi che ancora era salvezza e che mi concesse il tempo per perdonarmi, poi nel contatto lento, che trasformò la carne in miele. E io restai lì, fuori, e lui lì con me, come due che hanno perso, a guardare, stretto in un abbraccio, quel qualcos’altro da noi, di cui però potevo sentire il calore, il velluto, come fosse sabbia calda sotto i piedi in un pomeriggio di luglio. Sentivo per lui e lui sentiva per me. Cademmo e tornammo su, come leggeri sulla superficie oleosa d’un fiume, e intorno forse un cicalare fitto e il battito d’ali d’una libellula. Poi le parole di caramella, tanto sottili da poter passare attraverso quei sospiri e lui mi chiese quanto potevo restare ancora, prima di andare via. Dissi, non so per quale motivo, «Undici minuti» ma poiché ci eravamo smarriti in un tempo non misurabile, si allontanò solo per guardarmi negli occhi e contare il tempo. Mi guardò così forte che quasi mi fece male e disse: «Ti bacerò per undici minuti, allora. Poi andrai via. Giacché questo abbiamo.» Io pensai che fosse una buona idea. Così chiusi gli occhi come per dirgli dove mi aveva fatto male e lui mi baciò quegli stessi occhi, che erano anche i suoi e io li baciai e poi fummo come uno. E io sentii l’amore. No, io lo fui. E mai, mai in nessun altro modo, per nessun motivo che non fosse quello stesso motivo nostro, che tuttavia non conosceremo mai, nessun altro ha potuto mai, perché l’amore è solo quello e non esiste una versione alternativa, anche solo immaginata di quello spazio bianco in cui confondersi e non esserci più, o esserci troppo, ma senza poter usare i sensi, perché inermi, quando tutto scompare e non c’è nulla da guardare, o toccare o ascoltare, o pensare, se non l’amore. Un assioma. Non lo so dire ancora oggi, ma mi tremano le gambe ogni volta che ci penso e penso che è sempre lì, quel qualcos’altro da noi, e che non c’entra niente con la mia vita, né con la sua, né con quella degli altri che ogni giorno parlano, dormono, vivono, sorridono e si arrabbiano con noi. E non c’entra niente con nessuno e con le nuvole, e con le lenzuola stese odorose di fiori, e con la luce del tramonto, e con i sassi e il muschio e il sesso e le labbra di vetro rosso e questo mondo, perché, giuro, non è una cosa di questo mondo. Quando finimmo di essere amore, nel cortile del suo bar, quella sera a San Patrizio, restammo comunque noi. Come lo eravamo stati prima di allora, e come lo saremo domani. Undici minuti, dicemmo. Non ne cercammo mai conferma, semplicemente decidemmo che erano passati. Poi ci scompigliammo i capelli prendendoci un po’ in giro, fino a riderne come pazzi. Restai invece ancora dieci minuti e ci raccontammo, come ogni altra volta avevamo fatto in quei pochi incontri negli anni, dei guai, dei progetti, delle conquiste, delle famiglie, dell’ultimo libro letto e di un film che non avremmo mai visto insieme. Ma sarebbe stato bello poter andare al cinema e magari dire agli altri, non solo ai passanti che sempre ci spiano invidiosi e meravigliati, di essere ancora così amici, come davvero lo siamo. Tornai a casa e fui felice per noi. Ma, se ci penso oggi, sono felice davvero per tutti. Anche se loro, i tutti che immagino affaccendati in mille cose ogni giorno, come me, forse non lo capiranno mai. Io sono felice per loro e per la loro possibilità nascosta di gioia. Ma basta, ho finito. Sarà meglio ritirare i panni, le altre cose di questo mondo e rientrare in casa. Sta per arrivare la pioggia e voglio guardarla in silenzio al riparo da tutto questo.

And the chorus goes:

(i'm a female rebel)  
Sleeplessly
Embracing
You

Disperato, gassato ed ero(t)ico stomp.

cokez

Consegna a domicilio non prevista. Stop.
Ho detto stomp, non stop.
Non c’è tempo per uno stomp adesso, devi lavorare.
Roger. Ma necessito con urgenza di gassata scura in versione Zero. Tre supermercati sprovvisti. Stop
Mettere naso fuori di casa e ricorrere ad alimentarista di fiducia. Concesso. Stop.
Roger. Infilo scarpe. Passo e chiudo.
CocaColaZeroCocacolaZeroCocaColaZero. Ti amo. Ti bramo. Ti soffro. Faccio al volo la conta delle mie dipendenze del passato e orgogliosamente mi vedo al pari di gente che sta simpatica a tutti, tipo Keith Richards. Decido di non dar peso al fatto che la dipendenza da CocaCola Zero sia molto meno rock’n’roll di quella da rum, da un tale che non mi voleva, da quell’altro che non mi voleva pure, dalle gomme alla cannella, dal fumo, dai minestroni della Knorr, da certi dischi, da quel tizio che in fila dopo gli altri due continuava a non volermi. Mi sono umiliata molto più così. Piglio il cane che mi guarda terrorizzato, chiedendosi dove cazzo andiamo malvestiti e spettinati, dopo tutti questi mesi tappati in casa tra un lavoro e l’altro, e si va. A giudicare dal tepore e dal fatto che alle sei sia ancora giorno, dovremmo essere ad Aprile. Sì infatti, lo dicevo stamattina in radio che era “qualcosa Aprile”. L’ultima cosa che ricordo , prima della “nuova condizione” era la striscia di mezzeria della strada su cui stavo facendo jogging un sabato mattina. Era Agosto. Mi ricordo che all’improvviso ho pensato che non volevo più fare le cose che facevo, che ne volevo fare altre, che le volevo fare tutte e tutte insieme. E che mi piaceva solo Radio Rock. Ma cosa mi viene in mente  di mettermi a pensare? Finisco sempre per combinare un sacco di guai. E invece io penso. Maledetta. Ho impilato ore, impegni, files, canzoni, format, spot, lanci, radio, tv, web. Casa solo per il computer e per il letto. A volte. Disastri coniugali e relazionali di cui Michael Douglas sarebbe stato invidioso.  Ora mi ritrovo con questa bella torre che ogni volta che la guardo dico “cade cade cade”. Penso a delusioni, a grandi imprese, a una thailandese, ma l’impresa eccezionale, dammi retta è non essere asociale. Saluto la cartolibraia. Mi ha riconosciuto, o forse è solo gentile con tutti. Il cane dopo tre passi fa per tornare verso casa, pensando che sia la solita pisciatina sotto il portico. Quando capisce che scendiamo giù tra la gente reale, cioè non quella che sta dietro allo schermo, dove lui crede che ci siano tutti quei canetti simpatici che gli faccio sempre vedere su Youtube, ha un sussulto e si mette a correre. Per stargli dietro, tenendo il guinzaglio con il braccio teso vado a sbattere contro il palo della bacheca delle affissioni funebri. Leggo di un signore che conoscevo ai tempi del Liceo. Ne danno il triste annuncio i familiari e bla bla bla. Mi spiace molto. E all’improvviso mi viene in mente quella cosa fastidiosa della morte, che uno, magari mentre sta facendo cose importanti, piglia e se ne va. Mio padre è ancora tra noi, grazie al cielo. O grazie alla terra, dipenda da in cosa si crede. In famiglia sono impazziti tutti. Io no. Lo ero già da prima quindi nessuno nota la differenza, anzi gli amici di famiglia dicono che sono l’unica a non aver perso la bussola. Vedi che vantaggio a non averla avuta mai? CocaCola Zero. La apri e fa Fruushhhh. Ne ho bisogno. Vorrei fermarmi da Marcello ma va a finire che poi resto tutto il pomeriggio. E devo lavorare su quelle puntate nuove da consegnare. Me lo andrei a sentire un disco con Marcello e  a bermi una birra con lui. Gli amici mi mancano tutti. Quelli del bar dove sta Vale, tanto. Ma il punto è che  qualche mese fa ho scoperto di aver perso quarantamila euro con quell’idea meravigliosa di fare l’imprenditore e mi sono dovuta concentrare su altro che non fare le cinque del mattino ridendo e bevendo rum.  CocaCola Zero. Se non ce l’hanno nemmeno al bar del circoletto mi metto a urlare. Proprio mentre cerco di superare l’impasse del conto degli zero nella cifra quarantamila, immaginando il rumore di quando la versi nel bicchiere che è tipo CtohlCtohlCtohl, mi imbatto in un capannello di negozianti. Mi fermo a salutare e ascolto i discorsi come il vecchietto che guarda i lavori stradali. Quando sento dire “piccoli commercianti” dal più arrabbiato di loro nel difendere la categoria, inizio a immaginarli come come Umpa Lumpa.  Il tizio, con cui sono tutti d’accordo, dice che è giusto che il supermercato abbia chiuso, che l’abbiano espropriato e che siano stati tutti licenziati, perchè da quando ci sono i supermercati gli Umpa Lumpa, cioè i “piccoli commercianti” non lavorano più. Vorrei far notare che non è giusto per i poveri cavalli, che si sono fatti un mazzo tanto per avere un posto nella storia dei mezzi di locomozione, che adesso con questa storia dei motori su ruote, non ci sia più lavoro per loro nel trainare carrozze. E anche che con questa mania del telefono dobbiamo smetterla  e restituire ai piccioni viaggiatori la loro dignità. E scrivere le lettere a mano, perché la canzone Mr Postman torni ad essere una hit. Fingo approvazione, anzi mi scappa anche un “Che tempi Signora Mia” nei confronti della fruttivendola. Accanto a lei sono esposte delle bellissime mele Granny Smith. Quasi, quasi… Con la CocaCola Zero, non ci starebbero male. Quattro euro e sessanta al chiilo. Per le fragole le faccio un bonifico più tardi? Che prezzi, signora mia, speriamo che riaprano il supermercato, va’, sennò quelli che ci lavoravano e ora sono disoccupati come fanno a comprarsi le sue mele? Pochi passi e il mio alimentarista-fornaio di fiducia mi sorride dicendo che, anche se non mi vede da mesi,  la CocaCola Zero ce l’ha. Una sola. Ed è mia, se la voglio. Ce l’ho fatta. L’afferro. La pago tre euro, sempre per il discorso del supermercato, ma l’alimentarista-fornaio mi guarda e non mi dà il resto. Dice che sono magra. Troppo. Quindi perché Zero? Perché l’altra non mi piace. Ma ti ci vuole lo zucchero. Anzi i carboidrati. Compra un po’ di pane. No, non lo mangio più il pane. Guarda tu queste ragazze. Va a finire che stanno male malissimo e invece bastava che comprassero un po’ di pane. Compro il pane. Ne stacco un pezzetto e lo mangio per convincerlo a darmi il resto, ‘ché devo andare a bere la mia CocaCola Zero. Il pane è terribile. Davvero. C’è da volergli tanto bene all’alimentarista-fornaio che da quattro anni ci vende il pane e le CocaCola Zero. Perché a farlo non è proprio capace, ma ha un talento unico nel riuscire a farlo tutto uguale, dalle rosette al lariano, al francese. E’ una cosa che fa lui. Solo lui. Come Astariti che fa l’Urlo della Notte nel film La Scuola. Risalendo verso casa decido di fare la strada più lunga. La metafora mi colpisce e rallento il passo per rifletterci. Se ne accorge anche il piccolo e si gira a guardarmi come per perdonarmi di essere così. Mi abbasso ad accarezzarlo e ripenso a quando un paio di mesi fa eravamo sul divano a piangere mentre lo operavano e sapevamo che forse non l’avremmo rivisto più. La CocaCola Zero mi sta raffreddando il pane e pesa anche. La voglia ce l’ho ancora ma non riesco a muovere più un passo. Resto ferma, di sasso, sotto il sole d’Aprile a chiedermi come ci sono arrivata  fino a qui. Valla a capire la vita: la guardi come fosse quella di un altro e poi all’improvviso ti accorgi che eri tu. Sei tu. Tremendo sospetto. Mi vengono in mente, nell’ordine: Il Papa, David Bowie e una mia compagna di scuola al liceo. I primi tre avatar a cui sono riuscita a pensare. Era un test. Il sospetto è confermato. Dico il nome di una persona qualunque. Tac. La immagino come nella foto del profilo. Tremo ma devo farlo: mio marito. Tac. Foto del profilo. E soprattutto: io. Foto del profilo e immagine di copertina! Aiutateci. La società distopica paventata da Philip K. Dick! Eccoci. L’apocalisse del sè. Cosa è reale? Riprendo a camminare a testa bassa, come se qualcosa m’avesse colpito alla testa. Ho tanta voglia di CocaCola Zero. Ah già. Ce l’ho qui. Devo solo infilare la chiave nella toppa. Signora scusi ma le sembra normale che la luce delle scale resti sempre accesa? Qui dobbiamo chiamare l’amministratore. Simpatico vecchietto della porta accanto. Taglio corto e dico che io non so nulla, io pago l’affitto. Ma come non sa nulla? E qui dobbiamo parlarne. Non adesso. Non mi va. Non riconosco la foto del suo profilo, quindi lei non esiste. Nella vita reale, in questa vecchia vita qui, dove il vicino ti ferma per le scale senza chiederti se hai da fare, non puoi chiudere la chat dicendo che stai uscendo. E’ terribile. Rivoglio subito la mia scomoda società distopica fatta di profili, e avatar, e hashtag. Dove controllo io tutto. Dove esiste la contemporaneità delle azioni. Dove il multitasking è praticato anche dagli uomini, non solo dalle donne. Dove tutti questi lavori, doveri, impegni, obiettivi di cui ho riempito le mie giornate, possono convivere con la  nostalgia di una vita diversa e con l’idea di averla ancora, come quando suonavo i dischi in spiaggia da mattina a sera. Mi sono impuntata , lo so. La felicità che sto cercando è come questo Fruushhhh. Ma sono troppo arrabbiata per rinunciare a questa stupida, gassata, inutile CocaCola, che è pure Zero, quindi senza calorie, zucchero e contenuti. Ho fatto la strada più lunga per portarla a casa, e mi rendo conto che il piano può risultare poco chiaro a qualcuno, mentre per me lo è, eccome. Non so bene con chi o con cosa sono arrabbiata, ma è andata così. Metto il culo sul divano, solo per un momento. Non so se inviarlo, quel provino. Un altro guaio.  E’ tardi. Faccio le mie scale tre alla volta verso lo studio, afferro la tastiera, guardo il file del romanzo messo da parte, resisto alla tentazione di aprire vecchie foto o riordinare i dischi che volevo mettere dentro Wasabi e con dolcezza, mi chiedo se è o no il caso di premere Enter… ma è già partita la mia mano.

Quelli che non scrivono sui social network.

twitcatPerché loro sono twitstar. Anzi #twitstar. Ci ho messo molto, ma alla fine l’ho capito. Infatti io sono un po’ tarda, perché mi perdo per strada raccontando un sacco di cose e facendomele raccontare. Guardo tutti quei film e ascolto tutte quelle canzoni e infatti penso che sia bello parlare anche di quelli, anche sui social network. Perdo tempo a socializzare. Quindi non avevo elaborato ancora l’importanza di non scrivere sui social network per essere davvero figa.  Anzi #figa. Me lo sono chiesto per parecchio tempo: quelli che non scrivono sui social network,  dove scrivono? A chi le dicono le cose? Si tengono tutto dentro e poi si incontrano in una stanza senza finestre e se le dicono a manetta l’un l’altro senza ascoltarsi davvero, ma solo per sfogarsi? Magari incontrano l’amico del cuore per prendere un caffè e le dicono a lui. Ma non vale, perché poi a chi lo dicono che hanno incontrato l’amico del cuore e la cosa li ha molto rallegrati? Devono avere un altro amico del cuore  a cui dirlo, che hanno incontrato l’altro amico del cuore. Ma se poi i due amici del cuore si conoscono su Facebook, ecco che la rete è presto fatta. Sei social. Anzi #social. Social sì, va pure bene, ma Fb mai. Per carità. Anzi #fb. I social network sono sempre esistiti, che nessuno s’inventi il contrario. C’erano i capannelli a ricreazione quando si andava alle scuole medie. Il muretto alle superiori. I gruppetti a mensa all’università. C’era chi scriveva persino le lettere  a Cioè. C’è sempre stato qualcuno a cui far sapere una cosa con l’intento di farla sapere poi a tutti gli altri. Chi non stava nei capannelli di quelli che truccavano i motorini, stava in quelli di chi s’ascoltava la musica grunge. Chi non stava nemmeno lì stava nei capannelli di quelli con le storie d’amore complicate. E chi non stava in nessun capannello, stava comunque nel capannello di quelli che non volevano stare con nessuno, quindi alla fine i disadattati della socializzazione , socializzavano tra di loro. Non è cambiato poi molto da allora. Con un’unica eccezione: se vuoi essere Fonzie, devi avercela su con quelli che scrivono sui social network, e solo allora potrai diventare una vera twitstar. Scusate, #twitstar. Devi avercela anche un po’ coi giornalisti, però, perché ti rubano il lavoro da #twistar. A meno che tu non sia un #giornalistatwitstar, e allora è un altro discorso. Fonzie, lui, in meno di 140 caratteri, naturalmente incomprensibili, non ti dice niente di sé (non sia mai!) ma dice un sacco di cose a proposito di quel che dicono tutti gli altri. Allora quei tutti gli altri diventano suoi follower, essendo lui  figo proprio perché non scrive sui social, e può quindi diventare  il re dei social. Anzi, mi scuso di nuovo, il #redeisocial. Capito? No? Neanche io, bene bene. Ma pare funzioni così. Prendi Gesù. Non sarebbe mai stato una twitstar lui. Sempre a raccontare, co’ tutte quelle parole, e tutti quei miracoli noiosi, che: «Fossero almeno state citazioni di Kerouac andava pure bene, ma non è che ora perché hai portato un po’ di pesce e un po’ di vino, puoi stare lì a  dilungarti su come si pesca bene nel mediterraneo.» Infatti a me il blog di Gesù, onestamente, sarebbe piaciuto molto e mi sarei iscritta ai Feed. Ma Splinder ha chiuso, Tumblr annoia, e su WordPress si fa fatica a ingranare. Lui, come tutti noi vecchi , prolissi e noiosi blogger, avrebbe ripiegato su Facebook e io gli avrei chiesto l’amicizia. A me Facebook piace molto. Anzi #tantotanto, che fa molto più groupie. Brutto eh? L’ho fatto apposta per trollare le groupie. Non è proprio come era su splinder, ma è una piazza facile, dove ci incontri la gente che ti racconta le sue cose e tu gli dici le tue. In un modo o nell’altro, si continua a fare quello che si faceva in piazza il sabato pomeriggio.  Non ci vedo niente di così drammatico, anzi, per me che lavoro tanto al computer è bello poter tenere i contatti e scambiare opinioni senza dover per forza trovare la frase a effetto, ermetica quel tanto per essere #intellettualmentedirilievo. Gli Apostoli, che avrebbero invece ripiegato sui 140 caratteri da superstar del copy, si sarebbero limitati a tirar fuori i titoli delle parabole, che ne sintetizzassero il contenuto, dotati di ashtag capolavoro.  E giù un milione di retweet. Tipo “@Lazzaro si fa presto a dire #alzatiecammina. E poi quello era un @paralitico, mica un morto. #confusioneevangelica”. Lo confesso. Ho fatto la prova su twitter per vedere se il tweet entrava nei 140 caratteri. Fiùùù. Entrava. Hai visto che ashtag, sì? Potrei persino fare la groupie, con una dote così per gli ashtag. E magari mi chiamano a lavorare #allaradio. Sai come è, già che è un po’ che lo faccio, sarebbe anche ora che mi facessi followare per questo. Ah già, dimenticavo, è il contrario: se ti followano allora vai #allaradio.  Ah ah ah. Anzi #risataironica.

Harry, era meglio se non ti presentavo Sally.

sallyPerchè vedi Harry, uno dei grandi problemi della specie umana, è nell’inclinazione, probabilmente genetica, a ragionare sempre secondo la teoria evoluzionista. Pedissequa definizione di evoluzione: “Il progressivo e ininterrotto accumularsi di modificazioni successive, fino a manifestare, in un arco di tempo sufficientemente ampio, significativi cambiamenti negli organismi viventi”. Questo fondamento biologico, comunque opinabile, sembra calzare a pennello anche alle relazioni emotive, sociali e sentimentali. “Tu Tarzan, Io Jane. Noi cena insieme, poi bar, poi parlare di storie passate, poi diventare amici, poi ridere, poi non essere più amici perchè essere innamorati”. Evoluzione. In fisica la stessa teoria è persino più diretta: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.
Ecco perchè il teorema “Uomini e donne non possono essere amici” è fondamentalmente sbagliato se si considera come Wikipedia liquida in una sola frase i 96 minuti di masturbazioni mentali che ci accompagnano da quando Rob Rainer è diventato amico di Nora Ephron. La frase che contesto: “Il film segue l’evolversi del rapporto tra Harry e Sally, rispettivamente interpretati da Billy Crystal e Meg Ryan, in un arco di tempo di oltre un decennio, dal 1977 al 1989, attraverso una serie di incontri casuali, il nascere di un’amicizia speciale e la sua evoluzione in vero e proprio amore”.
In pratica il contrario di quello che il film vuole dire. Forse.
Al fine di procedere con il metodo scientifico sarà opportuno valutare le diverse possibilità, considerando come buona anche quella citata di Wikipedia e cioè il punto di vista “eracliteo” (e anche un po’ “clitorideo”, perché tipicamente femminile), che vuole il rapporto di Harry e Sally come qualcosa in divenire.
In aggiunta a quella elenchiamo:

L’ipotesi Parmenidea, detta anche “dell’Essenza” : Harry e Sally non sono mai stati amici e mai lo saranno; sono solo due persone che flirtano dal primo minuto, a causa di un inganno chimico, e come tutti quelli che flirtano hanno bisogno di dare un nome a quello che stano facendo. Il fatto che prima chiamino “amicizia” la relazione che li lega e poi la chiamino “amore”, non ha alcuna importanza ai fini dell’essenza. Sally è. Harry è. Insieme sono. Non possono essere citati ad esempio di alcun altro rapporto per l’unicità della loro essenza, che essendo infinita non è “in divenire”, perchè tutto ciò che è non cambia. Fine della storia. Anzi, essenza della storia.

La legge del Caos: Harry e Sally, prima ancora di conoscersi erano naturalmente predisposti, per caratteristiche di personalità, ad una certa affinità elettiva. Per questo, quando le condizioni esterne sono favorevoli ( e solo allora), condividono emozioni, tempo e attività ricavandone piacere e gratificando il proprio ego. Nel momento in cui le condizioni smettono di essere favorevoli (allo spettatore non è dato sapere cosa accade intorno a loro di contingente, come tasse, lavoro, soldi, tagli di capelli sbagliati) smettono di essere amici. Il fatto che diventino poi marito e moglie non è in relazione causa-effetto con la loro precedente esperienza di amicizia.

La teoria del piano inclinato (o del quadro che cade): Harry e Sally sono due ragazzi appena laureati che, grazie ad un’amica comune, hanno la possibilità di dividere le spese del viaggio in macchina fino a New York. Potrebbe succedere qualcosa ma non succede. Stop. Si incontrano di nuovo su un’aereo per Chicago. Coincidenza, disinteresse. Punto. Il terzo incontro è quello che avviene in condizioni favorevoli, ma, fino a quando non succede qualcosa di eclatante, i loro destini sono ancora aperti ad ogni possibilità. Quando è che la pallina inizia a rotolare? Quando è che cade il quadro dal muro? Qualunque sia il momento, è solo da lì, da quel piccolo, preciso, minuscolo istante che smettono di avere potere decisionale sulla propria vita. La pallina rotolerà sempre più veloce e nulla fermerà la sua corsa, fino appunto a fine corsa. Il sesso, spinta energetica che ha inclinato il piano e fatto staccare il quadro dal muro, punta alla liberazione dell’energia. Harry e Sally a letto insieme sono a fine corsa. Nessuna tragedia, suvvia. E invece no, perché la debolezza umana è proprio nel non saper guardare alle cose in termini di “inizio e fine”. Il matrimonio a questo punto è l’unica soluzione, se confrontata con una vita passata ricordare “quanto era bello rotolare lungo il piano”. Ed è qui che entra in gioco il principio di inerzia galileiano. Il matrimonio, appunto.

La teoria multidimensionale, detta anche “We’ll Always Have Paris”: Harry e Sally avranno per sempre Parigi. Come Elsa e Rick. Non importa quanto invecchieranno, se mai si lasceranno, se sono stati amici o non amici, se si sono amati o se invece era solo un inganno ormonale, se si sposano o se non si vedranno mai più. Se esistono tante dimensioni quante sono le possibilità, allora Nora Ephron ce ne ha raccontata una sola. In un’altra Sally e Harry stanno ancora lì a decidere se imbucare i biglietti gli auguri di Natale tutti insieme o controllare gli indirizzi uno a uno. E Natale non passerà mai. E’ un po’ come la teoria dell’essenza,  su più livelli. Solo molto più romantica.

Ognuno potrà scegliere l’ipotesi che lo fa stare meglio, anche se ciò significherà mentire a se stessi. In fondo la psicanalisi l’hanno inventata per questo no?
Restano dei quesiti a proposito di Elsa e Rick. Sarà sufficiente obiettare ad Harry, l’opinione secondo cui Ingrid Bergman sarebbe a “basso mantenimento”. Ma questa è la teoria su Casablanca. La formulerò in un’altra notte. Quando farà meno caldo.

Se tu sapessi casomai…

…che sogno te da mille anni. E non è per fare una citazione che poco s’accorda con l’aria da “sono una che ascolta musica figa”. Certo, in effetti io sono figa e infatti ascolto musica da figa, ma la discografia di Claudio Baglioni la so a memoria. E’ anche per questo che sono figa. Ma, a parte l’autoesaltazione a difesa della scelta, il ronzio nella testa di certe frasi a volte è talmente forte che l’intero costrutto che vi ruota attorno non si esplicita senza che le si abbia prime scritte. Eccola. A lettere grosse, perchè sono un po’ più miope dell’anno scorso. Finto il prologo, se tu sapessi casomai che sogno date da mille anni, beh? Che faresti se lo sapessi? Non me lo chiedevo così, giusto per fare un esempio, perché in realtà la domanda è pertinente anche prescindendo dalla richiesta specifica. Se tu sapessi casomai, oggi, quel che avresti voluto sapere ieri e poi potessi svegliarti domani mattina e fosse ieri, che faresti? Io non lo sapevo che questa storia della radio e del lavoro di anni e della passione e della conoscenza persino, mi avrebbe portato qui. Fino ad ora è stato molto faticoso. Mi rivedo piccola, seduta al tavolo della colazione e se solo fossi più onesta di così lo ammetterei che era chiaro come sarebbe andata. Detesto le vacanze dalla radio, mi costringono a riflettere e fare bilanci. Bilancio negativo, va bene? Ecco. Ora posso tornare a lavorare sulla monografia su Syd Barret che sto producendo. Che palle. Tanto non servirà a molto, ma solo ad avere qualcosa di buono da ascoltare in macchina. Fanculo a me e alla voglia che oggi ho di essere un avvocato. O un architetto. Va bene pure un meccanico, anzi meglio. Anche se il top sarebbe un idraulico. Eppure se solo avessi avuto davvero pazienza avrei dato retta a chi mi diceva che era la fisica la mia materia. Se tu sapessi casomai che avresti potuto essere Margherita Hack. Saprei tutto sulla vita, sui pianeti, e avrei tutte le risposte alle domande fondamentali sulla vita l’universo e tutto quanto. Direi:”Uh, vedi, un Bosone! Fantastico! Ora posso confermare il coso lì, il modello classico. E stiamo a posto”. Ma mi metto su un disco dei Doors e faccio le pulizie di casa, ché se l’universo ha il bosone, io ho l’ormone. E quello è immune persino al Cortexiphan. Mpf. Vado.

Many Rivers to Cross

La prima domenica di luglio del 2012. Guidando nel vuoto risonante di questa città, che si prepara alla bolgia speranzosa di stasera mi dico che forse, davvero, sono morta. E’ un pensiero faticoso, ce l’ho da due giorni, sempre più presente e pressante. Tra l’altro risolutivo rispetto al numero importante di domande, enigmi e indizi che mi hanno accompagnato negli ultimi anni. Ci penso meglio: durante lo schianto dormivo. L’ultima cosa che ricordo è il bianco dell’air bag, poi fumo e un rumore lontano. E subito dopo ero in piedi, al centro della strada, con le macchine che ancora tentavano di schivarmi, incolume e senza un graffio. Non mi sono chiesta neanche per un secondo come avessi fatto ad uscire da lì. Forse dal finestrino, non so. Non me lo sono chiesto. Non prima di molti anni dopo. Davanti a me, nel primo fotogramma utile nei miei ricordi, c’era Michela che mi guardava fissa. Avevo provato a chiederle se fosse lì perchè qualcuno aveva chiamato aiuto e invece, dormendo, avevo fatto lo slalom tra mille e più veicoli sulla strada a scorrimento veloce in orario di punta e avevo preso proprio lei. Mia cugina. Non la vedevo da un po’, ma le avevo telefonato forse un paio di giorni prima per chiacchierare. Ed era lì. Anche lei senza un graffio. Con le macchine distrutte ma tutte e due sane e salve al centro della carreggiata. Valle a capire certe storie. Certe giornate. Poi ci ripensi dopo anni e ti dici, in una domenica mattina come tante, andando in radio, che non c’è altra spiegazione. Sei morta. Ecco il perchè di tutte quelle strane coincidenze: i numeri che tornano; le canzoni nella mente ascoltate in radio un secondo dopo, come se dall’altra parte qualcuno lo sapesse; aver realizzato cose impensabili e nonstante tutto non esser paghi, come se qualcosa fosse sfuggito; non avere più un soldo e non averne avuti mai nonostante tanto, tanto lavoro. Pensandoci, nei sogni i soldi non si vedono mai, e quando si vedono non comprano niente. Nei sogni è tutto confuso e difficile, esattamente come è per me da molto tempo ormai. La cosa che più mi spaventa è che che forse inizierò presto a vedere gente con tagli alla gola, parti del corpo mancanti, occhi bianchi e roba simile. E’ proprio guidando, adesso, su questa strada vuota, mentre tutti vanno al mare e io vado a lavorare, che me ne accorgo. E in questo strano sogno di vita dopo la morte io continuo a lavorare mentre gli altri vanno al mare, esattamente come facevo quando ero in vita. Forse è per questo che sono ancora qui. Devo vincere il karma e poi andrò avanti con la strana storia lì del tunnel di luce. Comunque, ieri sera ho riguardato Alta Fedeltà, e adesso mi trovo a pensare che mai momento è stato adatto come questo per la top five delle migliori canzoni in un film. Se fossi in un film, e non in un sogno post mortem, i miei pensieri non sarebbero soli, ma ci sarebbe una canzone. Magari anche un flash back sul luogo dell’incidente e poi in dissolvenza immagini degli ultimi cinque anni. Ma la soluzione è dozzinale e nessuno regista figo del 2012 la userebbe mai, piuttosto  uscirebbero dalla radio frasi fuori campo a più voci e, a intermittenza di volume, Many River To Cross di Jimmy Cliff.
Quindi: la top five, in ordine sparso, delle migliori canzoni presenti in un film, non per la canzone in sè ma per la perfezione del contesto.
Raindrops Keep Fallin’ On My Head, naturalmente, da Butch Cassidy and The Sundance Kid. Jorando al Club Silencio in Mullholland Drive, anche se è pertinente alla scena e non fuori campo, come dovrebbe essere. Baba O’ Riley degli Who in Febbre a 90′ (L’ho rivisto due giorni fa e devo ammettere che ne avevo sottovalutato la pregnanza). Mad World di Gary Jules in Donnie Darko. Infine, siccome me ne manca solo una, It Might Be You in Tootsie. Ho detto, infatti: le migliori nel contesto. Ora, non che la playlist mi abbia risolto il problema del rischio di incontrare zombies, fantasmi, mia nonna o gente morta in generale, però il sospetto si allontana man mano che il giorno avanza, e questa vita qua mi appare sempre più giusta, chiara, utile persino, così come è. Poco importa come ci sia arrivata; in qualche strano modo, l’ho fatta io. Più tardi vedrò Michela, devo ricordarmi di chiederle come sta e se ha visto gente morta, di recente. Non si sa mai, meglio una verifica incrociata in questi casi.

Sensazionale.

Mica normale. Non puo’ esserlo in nessun modo perchè non è più il tempo giusto per essere sottotono. Sottodimensionato. Sottomesso sì, ma mai sottostimato. Non sono più temporali, ma già tsunami. E non c’è un po’ di coda ai caselli dell’autostrada, bensì un esodo disordinato che risucchia le automobili restituendo i passeggeri solo dopo molti anni, come nel film 2001 Odissea Nello Spazio. Un’odissea, mai un’avventura. Un’avventura emozionante, mai un’esperienza ordinaria. Una strage sanguinolenta, non più una rapina alla posta con una pistola finta. Tutti sotto i ponti, affamati, a chiedere l’elemosina all’angolo della strada, facendoci le instagram con l’iPhone, che è uno smartphone, perchè lui è intelligente, mica come il telefono che è stupido. E al fine settimana, che non è più solo la domenica, ma è il week-end che inizia il venerdì, si va al megamultisala, non al cinema, a vedere un kolossal in tre dimensioni, e dico tre. Non c’è più il rischio colesterolo a frenare la nostra voglia di patatine fritte, ma la morte certa con piaghe purulente, contagiosa persino, fino a renderci non più “morti viventi”, ma molto più trendy “walkers”. E così non ci sono più i vegetariani, ma interi eserciti di “vegan” che marciano compatti attendendo il passaggio vibrazionale, che non sarà una semplice “fine del mondo”, ma un’apocalisse in piena regola. E per l’occasione i cavalieri non saranno quattro ma ben dodici.
Oggi è venerdì, e non sento quest’aria da week-end, infatti lavoro e lavoro anche domani. Sono partita un’ora prima da casa per scongiurare il buco nero autostradale, ma non c’era che un po’ di coda al semaforo, come negli ultimi venticinque anni. Piove appena, anche se prima di uscire, dalla tv arrivava il monito implorante del colonnello : “Donna, mettiti al riparo dall’uragano che si sta abbattendo su Roma.” Dicevano anche che la crisi si farà più grave, la disoccupazione aumenterà a dismisura, e saremo presto non poveri, ma disperati. Eppure io la povertà istituzionale della mia generazione, la vivo da sempre e non mi pare che si possa peggiorare il peggio. Come dice il cowboy nel Grande Lebowski: A volte sei tu che mangi l’orso, a volte è l’orso che mangia te. Attendo con pazienza il giorno in cui all’orso darò almeno una morsicata. Ma non ditelo a un giornalista: rischio di essere additata per crimini nei confronti dell’umanità, per aver causato l’estinzione della specie di orsi più rara del mondo.

Scusi è molto che aspetta?

Anche oggi sarà in ritardo. Credo che finirà come al solito: me ne tornerò a casa e aspetterò che passi domani. In fondo queste nostre giornate qui immobili, seduti ad aspettare non sono affatto male, signora mia. Sapesse per quanto tempo mi sono affannata alla ricerca di una soluzione migliore. Le ho provate tutte mi creda. La strada a piedi, la pedalata, la ricerca delle scorciatoie, la passeggiata rilassata fino ai calli, persino la scalinata in ginocchio sui ceci. Niente da fare. Non che fosse molto chiaro dove dovevo andare, ma lei lo sa, signora mia, qui non è che nessuno ti dice niente: vai bene, vai male, gira di qua. Ci si organizza, lo abbiamo fatto tutti, mica solo io. Adesso però è diventato un gioco poco divertente, perchè alla difficoltà della ricerca della strada, ci si sono aggiunti divieti, strade chiuse, percorsi dissestati e nessun riparo per la pioggia. Guardi, a me quelli che sfrecciano veloci sulle auto fiammanti non hanno mai fatto invidia, nè rabbia. Ho sempre pensato che ognuno nasce con le sue doti: c’è chi ha buoni piedi e chi ha culo. Sa il culo, no? Non in senso di fortuna, ma in senso di culo proprio, quello che puoi dar via. Uh mamma, e che avrò detto mai! Comunque, io ho sempre preferito consumarmi i piedi che quella cosa lì, ma non mi sono mai lamentata per questo. Mi è sempre piaciuto girare l’angolo e vedere cosa mi aspettava, tanto che non ho mai sentito nemmeno la fatica. Ma qualche giorno fa mi sono tristemente accorta che qui non ci sono più angoli da girare, non c’è futuro insomma e la cosa peggiore è che non dipende da me. Così adesso, semplicemente aspetto l’autobus. E’ una cosa nuova per me, e sinceramente non mi pare tanto rilassante come vanno dicendo quelli che aspettano da quando sono nati. Ci fossero almeno cose buone da leggere. L’ho chiesto all’edicolante all’angolo, qualcosa da leggere. M’ha dato ‘sto bollettino di guerra. Un tempo mi deprimevo quando volevano farmi andar via a tutti i costi. Perchè, mi dica, a lei non sembra che ci stiano cacciando? Io ne ho la sensazione netta. Insomma dicevo, un tempo mi deprimevo, adesso le confesso che ho tanta paura, perchè la paura non ti viene quando pensi di fare una cosa, ti viene quando sai che stai per farla. Va be’.Che fa lei, aspetta? Mah, io aspetto fino a oggi, va’, che tanto non ho altro da fare. No anzi, me ne vado. Eh, dove, dice lei. Dice bene, dice. Mi scoppia la testa, non è che le vendono da qualche parte? Ci sono i saldi, la troverò in qualche grande centro commerciale, no? Ah non le vendono più? Solo culi dice, eh? Vabbè, buona giornata signora mia, ci vediamo domani. Sì, la cerco su facebook, la cerco. Ma guarda te che mondo, gliel’avrei fatto vivere per un secondo, ai Maya, ‘sti menagrami.

Divorati dai morti.

Ecco,  è senza dubbio questo, il peggior modo di morire  tra quelli che riesco a immaginare. Lo metto in cima ad un improbabile Top Five, dove al secondo posto c’è “ingoiati vivi da un’anaconda”, al terzo “cadendo nel vuoto con la macchina”, al quarto “crocifissi come Nostro Signore” e solo al quinto posto “Investiti da un pianeta X nel 22 dicembre del 2012”. Sarà forse la mania per la serie “The Walking Dead” che proprio quando negli altri intorno a me inizia a scemare, in me cresce  come accadde con Twink Peaks negli anni 90. Come allora ho un sacco di domande nella testa, alla fine di ogni puntata. In Twin Peaks erano molte di più e ci sono voluti vent’anni perchè potessi inventare delle risposte decenti, ma stavolta ne ho una sostanziale, che condiziona tutta la serie. Allora: l’Errante insegue il Vivo per mangiarlo. Se lo morde, anche il Vivo diventa Errante. Ma come fa un neo-morto a trasformarsi in Errante se è  stato mangiato? E soprattutto se l’Errante morde il Vivo e quello si trasforma in Errante prima di essere mangiato, viene immediatamente rifiutato perchè considerato “non più commestibile”? L’inganno è presto svelato. Ci mostrano le trasformazioni in Erranti, solo quando qualcuno viene agganciato, in presenza di altre persone che prontamente sparano allo Zombie. A quel punto il malcapitato, già morso, diventa Errante pure lui e buonanotte al secchio. Per capirci, il povero ciccione lasciato in balìa degli Zombies da Sean il Figo, ora è Zombie pure lui, o è stato mangiato fino all’ultimo boccone? La domanda è esistenziale e coincide con un inquietante interrogativo di tipo sociale, sociologico e  pure escatologico: i morti viventi intorno a noi, ci rendono come loro, cioè  non più commestibili, e quindi in un certo senso al riparo, oppure ci annullano definitivamente? Credo che sia molto meglio farsi uccidere che contagiare. Ma a giudicare dalla rapidità con cui il morbo si sta espandendo, è molto più facile essere come loro che restare vivi fino alla fine. E comunque ora che ci penso, no, l’anaconda è peggio.

E Se Invece

Senza punto di domanda, anzi ferreo. Ineluttabile come l’esistenza di diverse possibilità, che accettano ciascuna il proprio destino. Le diverse possibilità sono dame al ballo e ognuna attende il proprio turno per far ruotare il vestito nuovo. Qualcuna resta seduta, per celare un’orrenda cucitura storta, che non ha provveduto a far sistemare. Non per pigrizia, ma per rassegnazione. “Tanto c’è già – dice lei – la possibilità eletta a verità, e questo è solo un tentativo di redenzione dalla dittatura del destino.”
Io ci penso sempre alle altre possibilità. Le penso così tanto che a quel ballo mi pare di esserci stata io stesa mille volte. Me le immagino, le altre possibilità, che tornano ciascuna a casa propria, e che in qualche strano modo riprendono tutte la stessa vita, la stessa direzione, ciascuna a modo suo, su binari diversi. Come se nel tempo, tutte poi diventasse “verità”, ciascuna in una dimensione solo sua. Conosco un signore anziano che prima faceva il marinaio. Molto prima. Prima di fare altro e dopo aver fatto altro ancora. Ha ancora la pelle scura per il sole, anche se non va più per mare da tanti anni. Quando parliamo, anche se non con tante parole, perchè lui sta spesso in silenzio, scuote un po’ la testa e sorride verso l’orizzonte, come se non volesse sorridere a me, ma di me. E dopo quel sorriso mi raccomanda di smetterla di guardare alle dame che non hanno danzato, perchè non è cortese nei confronti della dama che quel giorni divenne verità. Io, che per mare non ci sono mai andata, ho solo tante canzoni da portargli come esempio. Ogni volta, chissà perchè, mi vengono in mente quelle che mai confesserei di aver amato tanto. A tredici anni già mi chiedevo come sarebbe andata se sotto l’insegna della Lampada Osram lui fosse finalmente arrivato, anche se tardi, anche correndo. Ma poi mi dico che se fosse andata così, nessuno ci avrebbe scritto una canzone su. E allora immagino il seguito perchè mi viene più facile. Immagino che lui l’avesse chiamata il giorno dopo dicendole di aver avuto un guasto al radiatore e per questo non aveva potuto esserci, a quell’appuntamento lì.
Ho sbagliato tante volte ormai che lo so già. Ecco, forse è così, i tentativi che partono come tentativi sono già fallimenti. Un tentativo dovrebbe sempre essere un progetto. Se a quell’altro appuntamento lì lei ci fosse andata con la certezza di incontrarlo, lui sarebbe apparso tra la folla. E l’avrebbe rivisto dopo tanti tanti anni, e magari oggi la loro vita sarebbe diversa.
Sorride di me quell’anziano signore. Di me, che no sono ancora mai andata per mare, ma che del mare conosco la tempesta, e poi la calma. C’è stata una sera in cui avrei dovuto invitare un’altra dama a danzare. Di tutte, solo quella detesto.