Teoria delle chiavi nella borsa shopper e quel che ne consegue

L’assunto di base è che le borse shopper siano molto capienti e per questo molto comode, poichè possono contenere tutto l’occorrente allo svolgimento di una tipica giornata femminile. In una borsa shopper è consueto trovare: soldi gettati alla rinfusa; ombretti chiusi con lo scotch da pacchi; rossetti disciolti nel proprio stick per colpa del caldo; antizanzare; un libro di fisica quantistica; palline da ping pong; documenti di secondaria importanza come il passaporto e la patente; una calcolatrice con i tasti grandi;  almeno due telefoni di cui uno rotto; una virgorsol superstite;  gli occhiali da sole e quelli da vista; altri occhiali da sole, ma quelli belli di Jimmy Choo con la custodia; un paio di infradito; il quaderno degli appunti; la custodia aperta degli occhiali da sole Jimmy Choo che credevi di aver perduto; due pennette usb non formattate; le chiavi di casa attaccate allo stesso mazzo di altre tre chiavi di cui non è certa la provenienza; i cerotti; le carote; un peluche con apribottiglia integrato; le chiavi della macchina; un disco dei Kasabian; una maschera da unicorno.

Una delle grandi risorse della borse shopper è che , andando a fare la spesa, alla domanda : “Le serve una busta?” si può anche rispondere “No, tanto ho la shopper”.  Così trova spazio nella shopper anche un cavolo cappuccio, una bottiglia piccola di aceto di mele, il Nescafè  Red Cup e una confezione di petti di pollo.

Secondo la teoria delle chiavi di casa , dopo il supermercato, arrivati davanti al portone di casa, con un rapido gestodella mano, infilata sotto il cavolo cappuccio, scansando la virgosol e la patente, si affererà immediatamente un mazzo di chiavi che, portato alla vista risultarà essere il mazzo di chiavi della macchina. A quel punto, facendo ricadere nella shopper le chiavi della macchina,  ci si stupirà del fatto che non si è riusciti a trovare subito le chiavi di casa e si dirà “Eppure le avevo messe qui”. Non sarà difficile intrufolarsi nuovamente e inciampare nelle palline da golf. Capita. Per questo diventa importante bloccarle entrambe con una mano e aiutarsi con l’altra fermando i manici della shopper con quel gesto che solo l’esperienza rende automatico: l’unione “clic-clac” spalla-guancia, di cui neanche Don Lurio riuscì a spiegare l’importanza. Una volta fermate le palline il resto è una passeggiata. Così, facendosi strada tra il passaporto e gli occhiali, stando attenti anon aprire l’ombretto, si pescheranno… di nuovo le chiavi della macchina. Eh sì, è probabile. La situazione infatti potrebbe essersi complicata per l’accidentale rottura di una sigaretta che, sul pavimento della shopper, fa attrito e non lascia scivolare gli oggetti come dovrebbero. Fortunatamente si ha ancora la presa dentale libera che sarà utile per la defilata dalla shopper almeno della busta col cavolo cappuccio. Mentre la bottiglia di aceto di mele la si potrà reggere tra le ginocchia.

Ora, la teoria delle chiavi nella borsa, dopo almeno altre pescaggi delle chiavi della macchina, nella ricerca delle chiavi dicasa, vuole che qualcuno dei condomini apra casualmente il portone ad un certo punto della ricerca fallimentare e e che proprio in quel momento, sollevando la testa per dire grazie, i manici della shopper scivolino dalla presa facendo cadere in terra le chiavi di casa appunto. Importante far sì che nel recupero furtivo non si richiuda il portone, altrimenti si torna al punto di partenza.

Entrando finalmente in casa si potrà rimettere le chiavi di casa nella borsa dicendo a se stesse “Per fortuna ho una shopper così ce le posso facilmente buttare dentro senza doverle appoggiare all’ingresso di casa”. E’ lì che la persona che aveva voglia di petti di pollo per pranzo ma  che nel frattempo è già al caffè ti dice: “Mi dai le chiavi della macchina che devo andare a prendere una cosa urgente nel cassettino”. Con un sorriso spavaldo, annuendo come per dire “Ce le ho proprio qui”, al primo rapido controllo si pescheranno comodamente le chiavi di casa.

E sarà inutile ritentare. Perchè questa è la teoria delle chiavi nella borsa che dice che “quando ti servono le chiavi di casa troverai sempre quelle della macchina e quando avrai bisogno di quelle della macchina troverai subito quelle di casa”.

Fatevene una ragione come ho fatto io.

Respirate.

Non chiedetevi perchè accade ma partite dalle conseguenze.

Si perde un sacco di tempo alla ricerca di qualcosa di semplice e fondamentale in una vita complicata. La gente dice “elimina qualcosa dalla tua vita come fosse la tua borsa”, ma quella gente non sa che se hai una borsa così è perchè non riesci a fare diversamente. E’ per questo che ti sei comprata una shopper: per vivere pericolosamente. Altrimenti avresti comprato una pochette, ti saresti messa un paio di tacchi alti, anzi, “scarpe da cena” come dice Sonia,  qualcuno ti sarebbe venuto a prendere e le chiavi della macchina non ti sarebbero proprio servite.

Ah, lo stress causato dalle voci continue che ti invitano a non essere stressata! Che meraviglia.

Da una shopper piena, non ne esci così, con uno schiocco delle dita.

Mi mancano gli amici, la birra, le risate e mi manco anche io. Moltissimo. Ma ho dovuto accettare questo momento della mia vita, in cui sono ferma, in una posizione da contorsionista, davanti alla porta di una casa che forse è solo un miraggio, impegnata nella ricerca delle chiavi.

Non ci abita nessuno in quel palazzo e chi ci abita sta cercando le chiavi insieme a me, quindi nessuno ci aprirà per caso.

Sono una perfetta scema della vita, secondo la classificazione di Massimiliano Parente, e per questo le metafore di solito mi vengono benino, ma la cosa triste, ancora più triste delle metafore degli scemi della vita, è che questa non è una metafora. Sto davvero tentando di aprire le porte di una casa. E nel frattempo non sto vivendo.

Se non è una cosa scema questa!

Ma la teoria delle chiavi di casa mi ha aiutato a pensare che se mi siedo, e smetto di affannarmi, prima o poi passerà qualcuno che mi chiederà di spostare la macchina, così io, distrattamente, pensando ad altro, cercherò le chiavi della macchina pescando infine quelle di casa.

Questa sì, è una metafora, ma mi concedo il lusso di dire che funziona.

Ora devo solo ricordarmi come ci si siede.

Forse  mi può aiutare la maschera da unicorno.

In a Zimmerman Mood

Sono nel mio momento Dylan, decisamente. Ed è molto difficile essere nel momento Dylan, per come la intendo io. Significa che lo penso spesso e che mi faccio molte domande a proposito di cosa deve aver pensato lui in questa o in quella situazione. Magari sto riflettendo su un concetto o sto prendendo una decisione, processi che per me durano diversi giorni, a volte settimane, e mi sbuca dal nulla la sua faccia. Mi è successo nel tempo anche con altri. Un po’ come accadeva a Rob in Alta Fedeltà, con Bruce Springsteen. Solo che nessun di questi che ogni tanto penso ha mai risposte o messaggi per me, come invece Bruce ne aveva per Rob. Senza motivo, semplicemente mi metto a pensare a loro . Ricordo di quando per esempio mi ero fissata con quella domanda a proposito di “Chissà come ci si sente a essere Iman e a ritrovarsi nel letto, la mattina, David Bowie”. Poi David Bowie è morto. Poco dopo eh, tipo due settimane, quindi forse è meglio che smetta di pensare chiunque. Comunque Iman avrebbe ribattuto che lei nel letto non si ritrovava David Bowie ma David Robert Jones e bla, bla, bla.

Stavo dicendo: è difficile essere nel momento Dylan perché neanche Dylan, io temo, abbia mai capito bene cosa voglia dire. Non sono una grande appassionata della sua biografia, a parte le cose che tutti sanno, o almeno che quelli che fanno il mio lavoro sanno, come : che c’entra Woody Guthrie, chi è il Thin Man della ballata e le citazioni tipo ” I don’t believe you, you’re a liar”. Non conosco a fondo la sua intera produzione, inclusi i bootleg, ma Il mio disco preferito, dei suoi,  è Blood on The Tracks. Mi dispiaccio sempre molto per Joan Baez e il documentario girato nel tour inglese del 1965 in cui la tratta come Harry avrebbe trattato Sally se non si fossero mai messi insieme, me lo rende detestabile. Anche se ho sempre pensato che Harry e Sally insieme in realtà fossero una coppia terribile e che Nora Ephron lo sapesse ma che ci abbia volutamente ingannati per vedere se ci saremmo cascati. Ci siamo cascati tutti e quindi , in fondo,  aveva ragione Dylan e Joan Baez s’è salvata la vita. Mi fa molto ridere l’episodio di Urban Myths in cui si racconta la leggenda della sua visita a Dave Stewart che finì nella visita a un Dave qualunque. Dal 2007 mi commuovo sempre quando ascolto I Want You perchè mi viene in mente Heath Ledger. If You See Her, Say Hello è la canzone d’amore più bella della storia del mondo e anche di altri mondi, probabilmente. Questo è quanto a proposito di quel che so di Dylan. Però qualcosa della sua enigmatica espressione mi si deve essere attorcigliato da qualche parte nel lobo frontale, e, quando meno me l’aspetto, allenta le sue spire e fa capolino.  Ieri ero sul terrazzo a prendere il sole su una delle sdraio che il proprietario della nuova casa ci ha lasciato a disposizione. Il terrazzo è condominiale ma l’ha arredato lui. Gli altri condomini, forse gelosi del fatto che fosse toccata proprio a noi quella casa, sfitta per lungo tempo,  con l’affaccio sul terrazzo condominiale, hanno iniziato a pisciare sul territorio come i cani, già dal mese di febbraio. Gente che abita al terzo piano e s’è impegnata l’oro di famiglia per comprare il terriccio per i vasi su all’ottavo piano, ricordandosi improvvisamente dopo forse trent’anni di quello spazio che tanto somiglia al terrazzo de Le Fate Ignoranti. Peccato che in casa nostra di ignorante non ci sia neanche il cane, e anche lui sia poco socievole coi paesani. In questi giorni li vedo farsi gli spaghetti aglio e olio al secondo piano e portarseli fumanti su per sei piani per mangiarseli, già incollati, su quello che praticamente è il balcone di casa mia, sudando più per il sali-scendi che per i trentacinque gradi. Del resto disturbare il prossimo è un obiettivo impegnativo, ci vuole costanza e sacrificio. Rimandando la scrittura  del trattato sulla frustrazione del farsi i vasi con le fragole al Tuscolano, sperando di dimenticare il cemento e la puzza di topo morto, ho pensato che potevo anche sedermici io, per una volta,  sull’affollatissimo balcone di casa mia. Ero in una posizione che conciliava la presa di coscienza: salda dai gomiti ai polsi sui braccioli, con i piedi ben piantati a terra , la schiena accomodata fino al collo e la testa appoggiata sul cuscino. Dopo anni di posizioni precarie del tipo: “Sono solo di passaggio, anzi, fammi andare che ho da fare” credo di aver per un istante indugiato, trovandomi immobile sotto il sole, a frenare le fantasie degli occhi socchiusi prima di aprirli un secondo e visualizzare la domanda del qui e ora, quella che mi ha fatto pensare a Dylan per l’appunto. Me lo sono rivisto nella scena finale del penultimo episodio del David Letterman Show. Già dalla prima visione, lì in diretta, di quel momento così storico per la tv e per un uomo di tv, qualcosa mi aveva disturbato. Non solo me ovviamente, visto che anche David Letterman pareva imbarazzato per l’apparente totale disinteresse di Dylan nei confronti di quello che stava succedendo intorno a lui. In quell’immagine di silenzio e goffe posizioni, m’è apparso finalmente il fumetto con le parole scritte dentro, e le parole erano «Ma che cazzo ci faccio qui?». Ho avuto un sussulto e mi sono detta che poi avrei fatto la prova su Google cercando quante più immagini di Dylan e abbinandole al fumetto in questione, ma ero già certa della bontà di questa intuizione. Il mio momento Dylan è quello di un “Ma che cazzo ci faccio qui?” finalmente convinto, fermo, con la giostra che non gira mentre mi pongo la domanda. Ricordo di essermi chiesta questa cosa più volte negli anni: quando avevo sedici anni, seduta al banco di scuola durante la lezione di Eneide, all’ultima ora del sabato; quando ne avevo venti sul letto della mia camera, aspettando una telefonata che non arrivava mai; a venticinque servendo ai tavoli del pub; a trenta nei lunghi pomeriggi in consolle al Mecs Village, indovinando canzoni per chi passava sulla battigia e poi negli inverni freddi quando diventavano consolle di locali pieni di fumo di sigarette. Ho sempre avuto una risposta, tutte quelle volte. Che ci faccio qui?

Studio per diplomarmi così poi potrò andare all’Università, anche se quel che conta è che domani non ci sia scuola.

Aspetto che mi chiami, così potremo uscire, anche se non so se alla fine gli hanno dato la licenza o se è rimasto a Torino perchè l’hanno messo di corvè.

Porto questo al tavolo 32, così poi posso andare a vedere se è pronta la comanda per il 46, e visto che è l’ultimo tavolo, tra mezz’ora me ne vado a fare colazione con gli altri.

Ora gli metto questa, perchè avrà più o meno quarant’anni e nel 93 avrà di certo comprato questo disco quando era al liceo. 

Non riuscirò mai ad andare davvero a tempo ma punterò sulla selezione. E poi questa piace al banco, così i ragazzi si ricordano che sono qui e mi mandano da bere. 

Risposte del qui e ora che danno un senso, incompiuto e provvisorio forse, di quel che sto facendo. Ecco cosa mi manca da dieci anni a questa parte. Il fatto è che a un certo punto i progetti e speranze e pensieri e avventure devono essere diventati troppi, si sono mischiati e non ci ho capito più niente. Come in uno di quei film dove a un certo punto ti fanno sbirciare un epilogo di vent’anni dopo, prima di raccontarti come ci si sia arrivati.

Ma che cazzo ci faccio qui?

Vuoto totale e frasi sconnesse farfugliate anche ad alta voce che non possono essere una risposta, perchè sono solo inviti a nuove domande.

Sono qui perchè stiamo ricostruendo casa daccapo. Sì il Big ranch. Da tre anni ormai.

Conduco show di televendite e so cosa è l’acido ialuronico a diversi pesi molecolari.

So anche cosa è la Trap.

Papà è morto. Oddio, pare impossibile che sia morto proprio lui.

Ho avuto un’azienda e l’ho chiusa.

Ah no, quello è successo prima. Prima della Trap dico.

Farò i bagni in resina cementizia.

Ecco. D’un tratto l’espressione di quello che ormai chiamerò The Zimmerman Mood deve essere comparsa sul mio viso. Non c’era nessuno a confermarmela ma non c’ero nemmeno io , perchè per una volta non mi guardavo da fuori, come fossi una spettatrice di passaggio, troppo indaffarata per avere opinioni. No , no, ero proprio io, da dentro, perduta e sconnessa, come probabilmente un Dylan qualunque a cui hanno chiesto, in un qualunque momento della sua vita, dal Greenwich Village in poi, «Chi sei e che ci fai qui?». Chissà se questo giustifica il mio esser diventata, agli occhi di chi mi conosce da tempo, così sfuggente, fredda e cinica. Cioè stronza. No, infatti, non mi giustifica, anche perchè nessuno cambia mai, tutti sono come sono da sempre. Ecco, di questo, per esempio, me ne farò in fretta una ragione.

Fatto.

Ho preso il sole ancora quindici minuti e sono rientrata a preparare il riso alla cantonese. Però mentre la frittatina tagliata si freddava accanto ai cubetti di prosciutto cotto, perchè è importante freddare tutto a parte prima di mischiare, ho cercato su Google tutte le foto di Dylan che potevo trovare, e con una App ho messo il fumetto parlante “Ma che cazzo ci faccio qui?” a tutte le immagini. Perfetto. Calzante. Illuminante. 

Che dici, Joan Baez, possiamo perdonarlo ora che sappiamo del suo smarrimento?

No.

Ah sì, in tutto questo, “a parte” è ancora fondamentale per me.

 

A me le Rossana fanno schifo anche se sono rimaste solo quelle.

 Li ho sempre un po’ invidiati io, quelli che amano le Rossana. Che poi secondo me a loro non piacciono davvero. Già dolce, fatta di caramella caramellosa, in più con dentro la crema zuccherosa. Ma per favore. Orsetti gommosi, quelli verdi prima di tutti. M&M’s rigorosamente con la nocciola, meglio se rossi. Il Liquirone e le Goleador. Cocacole frizzanti.  Le Fruit Joy, se proprio non si vuole rinunciare al vintage e tutt’al più una Halls agli agrumi, per stare al passo coi tempi. Ma le Rossana no, fatemi il favore. Un po’ come i pastiglioni alla menta fresca che avevano in bocca la consistenza dell’aspirina americana. Va be’. Comunque, finite tutte le altre, quando nella ciotola sono rimaste solo tre Rossana, in molti dicono di sì, anche se la sera prima stavano dicendo a un amico che piuttosto che mangiarsi una Rossana si sarebbe lasciati morire di fame. Poi invece, in preda all’ipoglicemia, in piena carestia di Big Fruit, se le ciucciano come fossero gommose ai frutti rossi. La vita felice (immaginata) è dei possibilisti e io non lo sono. Non dico felice. No, no perchè? Io sono felice, ma non tutto il tempo, perchè non sono possibilista. Semplicemente quando non ho quel che voglio, come lo voglio, non voglio nulla. Rossana? No grazie. Ma guarda che c’è solo questa eh. E pazienza, farò senza. Insomma sono felice solo quando lo sono davvero. Quando non lo sono, sono normale, ma se mi chiedono “come va?” dico che va di merda. Però lo dico sorridendo, perchè il buonumore non va mai perso. Eppure, Rossana a parte, ho passato una vita ad essere accomodante. Ciao, buongiorno, ma certo, tutto bene, sono d’accordo, facciamolo, come vuoi tu e se ci tieni per te tutto. Ma perchè invece non ho detto più spesso: fanculo no, non mi piace,non mi muovo, tienitela te sta Rossana che a me fa schifo e muoio di fame piuttosto? Me ne sto seduta qua, con le gambe incrociate che non si incrociano mai perfettamente perchè mi fanno male le ginocchia dopo un po’, a guardare fuori la primavera che è esplosa in questo enorme parco che un tempo chiamavo casa. Una prigione dorata in cui mi sono cacciata di nuovo. Maledetta me. Vuoi una Rossana? No, grazie. Poi ti passano una Rossana con la carta blu, ingannevole e fedifraga, e tu dici “ah be’ allora se ha la carta blu”. E invece no. Bocca chiusa a sigillo e dieta per non cedere al richiamo dello zucchero. Perchè per imparare a dire  “no fanculo, neanche se mi ammazzi”, devo pensare insistentemente a quell’unica eccezione della mia infanzia. La missione è aumentare il numero dei limiti invalicabili e fare leva su quel principio che è la sostanza di cui sono fatta io, e anche i miei sogni: l’onestà intellettuale. Le cose sono cambiate quando ho smesso di  desiderare intensamente e mi sono chiesta perchè desideravo. Fai la prova, su. Voglio questa cosa. Sì, ma perchè la voglio?  E diventi potente in un secondo. Niente orsetti gommosi? Pazienza, tanto non è che volevo una caramella, volevo quelli. Rossana o pesce al forno a quel punto pari sono. E’ una gran presa di coscienza. Non è che faccio festa. Anzi, c’è grande soddisfazione nel dire che sto di merda. Fredda come il marmo sono. Muta come un pesce divenni. Immobile come un sasso mi trovarono. No no no. Anche se intorno a me, in una malconcia posizione di Buddha, uno scroscio di carte di caramelle rosse impedisce ai miei pensieri di fluire. Mi scusi non ho il resto.  Le do anche 400 caramelle “. “in cartone?!?” “no!… sciolte…”. Tenga pure il resto, e tanti saluti.

Sì, ho paura del buio. E non è vero che non è per sempre.

Ecco come stanno le cose: non è più tempo di farsi delle illusioni.
Andava ripetendo tra sé.
Ora, a parte il fatto che io non mi faccio illusioni, piuttosto vaglio molteplici possibilità, questa storia che ripeto le cose a me stessa deve finire. Sono grande, è ora che la smetta di rimproverarmi per cose che non posso cambiare. Mi sono abituata a questa mania del controllo e poi il primo segno di guarigione dalle nevrosi è avere consapevolezza di esse. Mi piacciono le mie nevrosi, le amo persino. Le vorrei, se non le avessi già. Sono piccola, ho diritto a tutte le nevrosi che voglio. E che nessuno mi rompa le scatole. Va anche bene se a puntare il dito contro di me sono le persone buone, oltre me stessa, ma che adesso addirittura io abbia scoperto che esistono i cattivi e che debba sopportare il loro sudiciume, no eh, mi pare troppo. Sì, io ho paura del buio e quando dormo sola tengo la lucetta accesa. E per sempre ascolterò la musica mentre dormo, per sempre. E siamo due a zero per me. E’ il momento della verità e del cinismo e io sono così cinica che quando ieri mi  è diventato il cuore duro come una pietra, in quella sensazione che m’era capitata solo altre quattro, cinque volte, mi sono detta: “E’ proprio strano come succede, ed è bellissimo quel freddo che s’impadronisce di te”. Io so chi sono: sono cresciuta in provincia, in una casa molto grande con tante persone. Due fratelli hanno sposato due sorelle, quattro nonni, sette tra cugini e fratelli, gli amici al muretto, le feste in casa, il Natale coi biscotti e la spesa con nonna il sabato mattina. La prima volta con il mio primo amore, i voti alti, i genitori insieme per una vita. Se la mia non fosse stata una famiglia comunista e matriarcale sarebbe sembrata quella di Seven Heaven. Ma era veramente così comunista che alcuni, come mio nonno e mio padre, hanno preferito lasciare questa terra pur di non vedere il governo Renzi. Io sono uscita dall’eremo a ventitré anni e sono stata la scema del villaggio per un bel po’. La prima volta che ho avuto a che fare con chi mi accusava di buonismo credevo che scherzasse. Ma che è sto buonismo? Io nel mulino bianco ci ho vissuto davvero e se qualcuno ne volesse la prova… be’, il mulino sta ancora là eh, e chi ancora ci vive chiede il permesso persino a Rosina per prenderle le uova ogni mattina. Fa ridere, io faccio ridere. Facevo. Ho ancora paura del buio e per sempre ne avrò. Perchè il buio mi confonde, non mi fa vedere le cose come sono realmente. Ma oggi sono diventata un po’ più cattiva, quel tanto che basta per capire cosa non sarò mai. Mi viene da vomitare davanti alle serpi. Cammino e ne incontro ovunque. Le vedo belle con gli occhi grossi e le ciglia che fanno vento. Mi spaventerebbero se non conoscessi i loro obiettivi. Le serpi vanno dove non vado io, cioè ovunque ci sia sole.
Senti, tu, vaffanculo.
Sono vent’anni che mangio il sale e non ho mai pestato un callo a nessuno. Non venire a pestare i miei solo perchè pensi io sia distratta, ché è tempo per me di dirti che non è per sempre. Non è per sempre quell’illusione di vittoria. Perchè tu non sei abbastanza. Devi sperare che vada male a me perché vada meglio a te. Quanta tristezza. Quindi sì, io ho paura del buio, sono un po’ ingenua, credo nel paradiso dei buoni, e studio molto per avere risultati. Non ho mai fatto favori sessuali e quando me li hanno chiesti non li ho capiti. Pensa. A me non importa di andare in un posto qualunque dove vuoi andare tu, anzi, quando vedo un nido di vespe lascio che si pungano tra loro, chè io ho altro da fare. Il talento è una schiavitù perchè se come me ci sei nato, con il talento, senti di dovergli portare rispetto. Ma lui ti ripaga. Sai come? Ogni giorno al risveglio è lì a suggerirti nuove idee. Tu potrai copiarne quante ne vuoi. Io ne avrò sempre di nuove e migliori di ieri, da metter in opera lontano, lì dove non dovrò sentire la tua puzza.
Agli altri, buona vita.
E che ognuno si faccia i cazzi suoi, ‘ché io Rosina l’ho vista pure incazzata e non era una presenza piacevole. Ciao.

Panta Rei

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Oggi è uscito il disco che mi salverà la vita. L’ho aspettato senza saperlo. Da settimane sono entrata nel meraviglioso periodo più difficile della mia vita, fino a questo momento. Dico meraviglioso perché so che un giorno ricorderò ogni dettaglio, colore e suono di questi giorni così importanti e brutti. La meraviglia è in ciò che resta immobile nel tempo, come uno scoglio nel fiume, mentre  il resto gli passa intorno, senza scalfirlo mai. La maggior parte della musica, soprattutto per me, è una specie di piacevole rumore di fondo. L’emergenza del ricordo in certi casi è data solo dalla necessità spicciola che si risolve in appunti sparsi, playlist su soptify, qualche cd con la linguetta che esce fuori dalla libreria, per lavorare anche quando nella mente quel titolo esatto per richiamare il contesto del discorso, non c’è. Altre volte invece una parola, la vista di un oggetto, una notizia, mi riportano all’istante, mentre sono in diretta, a cose e canzoni del passato così chiare, nitide, come fossero di oggi. A quel punto, in un attimo supero il piccolo dramma dell’interferenza del personale nel fluire del discorso mandando su quella canzone importante che suona già nella mia testa, senza aggiungere altro. E sono salva. Questo è il senso di Currents, credo. Ogni cosa fluisce nel tempo, rivelando in ogni secondo, nuovi aspetti della sua essenza e apparendoci per questo diversa. Panta rei. Tranne che in alcuni momenti. Il momento in cui capisci che una cosa è finita. Quando incontri per caso un vecchio amore e per un secondo ti sembra di essergli ancora accanto. Quando fai un errore consapevolmente e sai che continuerà a essere sempre lì per te, monito o tortura. Quell’istante in cui decidi di cambiare e di  non tornare mai più indietro. Un po’ come succede nei sogni. Al risveglio non sai dire esattamente cosa sia successo, quanto sia durato, quante cose tu abbia visto. Ti resta la sensazione dell’accaduto e alcuni dettagli indimenticabili. Se questa fosse una recensione saprei argomentare la mia preferenza per questo disco, rispetto ad altri dei Tame Impala, o di altri. Parlerei dei Daft Punk, dei Bear in Heaven, di Prince and The Revolution, di per quale motivo è il soul che si chiama “anima” e non il rock.  Della psichedelia e del suo perfetto ritorno nei tempi in cui la dipendenza più diffusa è la fuga dalla realtà. Di roba new age tipo le chitarre sono l’elemento terra e i synth sono l’elemento aria. Dell’R&B e della disco music. E mi viene anche da ridere perché lo dico da sempre:  la disco music salverà il mondo. Ma a chi importa davvero la supercazzola musicale? Non importa più nemmeno a me che al primo ascolto di un disco, vaneggiando ad alta voce, uso sempre neologismi infantili tipo “Tum-sta” Pum-cià”, “tunz tunz” “Wah-Wha” e “Uh-babe”. Ma posso dire lo stesso perché Currents è tanto bello per me. Perché è come questo mio momento, nostalgico e arrabbiato allo stesso tempo. E perché invita ad accettare i cambiamenti, con la consapevolezza però che nulla di importante, sarà mai davvero abbandonato.

Come quei giorni, in cui, già grande ma solo per finta, potevo anche litigare con lui e sbraitare sbattendo la porta di casa, dicendomi, ingenua, che tanto ci sarebbe sempre stato per me. Come questi, in cui, inerme, semplicemente aspettando che vada via, vorrei anche per un istante poterlo pensare di nuovo.

I heard about a whirlwind that’s coming ‘round
It’s gonna carry off all that isn’t bound
And when it happens, when it happens (I’m gonna be holding on)
So let it happen, let it happen.

Io quella volta che sono stata davvero felice.

thebeach

Me la ricordo benissimo. E quella volta che sono stata davvero felice me lo sono detto, ridacchiando tra me e me. Dicono che quando sei felice non lo sai e lo capisci solo dopo che la felicità è passata, ma é un inganno. Te lo dicono così pensi di essere stato felice anche quelle volte in cui non lo sei stato davvero, fai spallucce e ti racconti che in fondo la tua vita non fa poi così schifo. Eccerto. Se finisci con il ricordartela sempre meglio di come era in realtà, la vita, per forza che t’accontenti. No no, invece io, ve lo giuro, quella volta che sono stata davvero felice, lo sapevo mentre ero felice, non dopo. Non è che la presa di coscienza sia stata chissà quanto lunga. E’ durata qualche secondo, e poi ho continuato a essere felice facendomi i fatti miei e senza ripetermelo ogni minuto. Sennò mi rovinavo la felicità. Quando ci ripenso mi ripeto che io lo so quale è il segreto della felicità, ma non è che per questo posso ridiventare davvero felice quando mi pare. Io ora posso anche dirlo, non fa niente, mica è una cosa che non si può sapere, tanto poi dipende tutto dalla fortuna. Quella volta che sono stata davvero felice me lo sono detta, ma non ho mai pensato che se l’avessi detto a qualcun altro sarei stata ancora più felice. I social network ancora non c’erano, ma se anche ci fossero stati non ci avrei scritto che ero felice perché non mi sarebbe venuto in mente di accendere il computer, o il telefono. Questa è una cosa che so per certo: quando sei davvero felice il computer è spento e pure il telefono. Quando sei felice non sei mai felice da solo e le persone che sono felici con te, non è che te lo devono dire, ma se vogliono possono farlo perché stanno lì e te lo possono dire di persona. Poi soprattutto quella volta che sei davvero felice, a volte sei anche davvero stanco. Ma non  di quella stanchezza che t’addormenti pensando a come risolvere i problemi nella tua testa. Più di quella stanchezza fisica che ai problemi proprio non ti ci fa pensare prima che arrivino. Quando sai che sei davvero felice ha infatti un sacco di cose da fare insieme agli altri che sono felici e lo sanno come te.  Insomma se sei felice davvero lo sei almeno in tre. Quattro è meglio ancora. Se arrivi a dieci, funziona, ma già scricchiola. Quando ci sono i film in cui fanno vedere quale è il segreto per essere davvero felici, mi viene un po’ di invidia per quelli che stanno nel film. Perché funziona così: quando non fai parte di quelli che sono felici, allora fai parte di quelli  che sono invidiosi di loro. Ma a quelli che sono davvero felici non gliene importa proprio niente, anzi, non se ne accorgono nemmeno. Ripenso spesso a quella poesia che mi piaceva da ragazzina che dice quelle cose sulla felicità de “I Ragazzi Che Si Amano” , e adesso mi fa sorridere perché nessun Prévert al mondo ha mai avuto il coraggio di raccontare cosa succede dopo un po’ che i ragazzi che si amano si sono baciati in piedi contro le porte di un sacco di notti. Arriva la noia, e finisce che i ragazzi che si amano iniziano a farsi selfies mentre si baciano contro le porte della notte, per metterlo su facebook, così almeno a qualcuno sembrerà una cosa nuova. Due non basta, o forse basta ma solo se sono due dentro un altro numero di persone. E poi ci vuole una missione che non sia solo quella riproduttiva. Magari va bene anche quella, ma di questo non posso portare testimonianza diretta. Perché quella volta che sono stata davvero felice la missione riproduttiva era solo un elemento decorativo e non fondamentale. Quindi, per arrivare al punto, quella volta che sono stata davvero felice, lo sapevo io e lo sapevano quelli che con me facevano cose stancanti per una missione comune, in un posto comune, dove si stava insieme davvero e non su internet. Insomma è come dicono alla fine di quel brutto film con Di Caprio che di bello ha però il commento finale. La felicità è quando senti nella tua vita di fare parte di qualcosa. Ma è solo fortuna. Quando succede capita di solito per caso che ci si ritrovi insieme in quella situazione e in quel posto e con quello spirito. Già spegnere il computer e uscire di casa però aiuta. Ciao.

Oggi Le Signore Ricche Che Fanno La Spesa hanno fatto la rissa.

Ho anche avuto paura, a un certo punto. Ma poi mi sono lasciata tirare dentro perché non volevo che la cassiera sfruttasse lei i diritti di questa storia, senza sporcarsi le mani. Me l’ha confessato il mese scorso. M’ha detto : «Un giorno racconterò tutto quello che mi vedo passare davanti agli occhi. E sarà un best seller.» Eh no, cara mia. Troppo facile. Al Supermercato delle Signore Ricche Che Fanno la Spesa, ci devi venire e devi pagare le seppie surgelate otto euro anche tu, se proprio ti interessa vivere emozioni forti. Quando sono arrivare ad abitare in questo quartiere ho provato due o tre supermercati, prima di convincermi che quello delle Signore Ricche Che Fanno la Spesa è in assoluto il migliore. Chiariamo un punto: io detesto fare la spesa. Stirerei le camicie piuttosto, se solo sapessi come si fa. Ma se c’è un posto in cui la natura umana si manifesta in tutte le sue sfumature, a mio avviso, quello è il supermercato. Quindi mi armo di pazienza e vado a guardare le Signore Ricche Che Fanno La Spesa. Prima passano da Bangla Bulgari, come lo chiamo io. I fagiolini li fa due euro l’etto, ma mi sta simpatico e poi si ricorda tutto di tutti. Di me sa che dopo la spesa vado in radio. E oggi si è molto preoccupato quando mi ha sentito senza voce, quindi m’ha regalato lo zenzero. Dentro al Bangla le Signore Ricche le riconosci: sono quelle che cercano lo scalogno e l’erba cipollina. Aglio e cipolle sono da plebei. Usano i guanti di plastica per tastare tutte le pesche. Poi: scelgono, mettono nella busta, si tolgono i guanti, cambiano idea e sostituiscono la pesca plebea con una più adeguata. Qualche volta Bangla Bulgari mi fa passare avanti, perché sa che compro solo le cose che ha lì in cassa, tipo i ravanelli e il basilico. Non oggi per fortuna, perché avrei potuto iniziare io una guerra che è poi terminata al Supermercato delle Signore Ricche Che Fanno La Spesa. Dopo il Bangla infatti ci si rivede tutte lì, con i nostri (i loro) vestitoni a fiori su sfondo bluette e la collana di turchese al collo, a disquisire col banconista se il grasso del Parma può far male al gatto, e se le olive sono greche. Oggi era difficilissimo fare la spesa come la fanno loro, con quel grugno portato in alto e il carrellino a traino come su una passerella. Il primo vero venerdì di rientro. Un bagno di sangue. Al banco erano al numero 32 e io avevo il 47. Morto che parla. «Preferisco andare da mia mamma ai Castelli stasera e fermarmi dall’alimentarista di fiducia che morire qui, immersa nell’odore di lonzino mischiato a Opium di Yves Saint Laurent!» Mi sono detta mentre andavo ad affrontare la fila scomposta in cassa. Fila troppo scomposta. Ora, se c’è una cosa che le Signore Ricche Che Fanno La Spesa sanno fare, è passarti avanti in fila, con nonchalanche, fingendo di non essersi accorte di te. Ma lì, a combattere con i simili, solo le più alte in grado, quelle che hanno fatto le vacanze a Vieste e non al Forte, ce la fanno. E così eccola spuntare dal nulla, col suo etto di crudo dolce in una mano e mezzo litro di latte nell’altra, a dire, con la voce di Joan Crowford e tutte le vocali chiuse: «Oh, scusatemi care. Scusi eh. Mi scusi. Sì, scusi anche lei. Ho solo questo. Pago e vado via.» Un silenzio tombale le reggeva il manto mentre come regina si faceva largo tra le borse di Fendi e i foulards finto vintage Guy Laroche. Ho avuto appena tempo di canticchiare tra me e me la marcia imperiale di Darth Vader «Dam dam da – Da-da-daaa Da-da-daaa » che la Bette Davis di via Gallia, è uscita dalla fila apostrofando la fedifraga: «Un tempo tra persone civili, almeno si chiedeva il permesso. Siamo tutte qui a soffrire allo stesso modo!». Cantami o Diva l’ira funesta delle comari. E’ stato come dare il via. Un parapiglia di insulti, battibecchi e minacce. Le indecise tra una fila e l’altra, sempre pronte a cambiare corsia all’esigenza, vengono lapidate per prime. «Lei la riconosco! Ogni giorno fa il suo giochetto a zig-zag credendo che le altre siano fesse. Adesso la spedisco dritta dritta a far la fila dal macellaio, che quando vede quei zamponi che si ritrova, la fa passare avanti e inizia a preparare i cesti per Natale!». Le malcapitate con in mano solo il pane e l’omogeneizzato per i piccoli Dudù, si mettono talmente tanta paura che, pur di non far la mossa di passare avanti, iniziano a prendere a caso surgelati dal reparto freezer. Io agguanto due confezioni di ghiaccioli alla frutta. Ma solo perché mi ricordo di colpo che li volevo. Quelle più vicine alle due casse iniziano a far a gara per chi fa prima a metter su le cose, sbirciandosi dalle file parallele con gli occhi iniettati di sangue e inveendo contro le rispettive cassiere «Facciamo vedere chi è più civile! Forza, si sbrighi! Si sbrighi!». La supermamma di turno, solitamente perduta senza la tata al seguito, libera il bambino griffato dal passeggino, e, sollevato, lo stringe al petto e dice ad alta voce «Non piangere piccolo mio! Non piangere. Certo siamo noi che avremmo diritto di passare, ma saremo pazienti.». Il bambino non piange, ma si capisce benissimo che si chiede quale vita grama lo attenda. Il panico tra la folla assiepata si smorza solo quando una delle due cassiere inizia a chiamare con voce disperata una certa Valeria, perché apra la cassa tre. Valeria non se la sente evidentemente, e l’atmosfera, in sua attesa, si fa ancora più tirata. Quando ecco che, proprio dietro di me, si materializza la protagonista dei miei sogni. Mai, in anni di ricerca ossessiva del perfetto personaggio per un racconto, mi ero imbattuta in tale miracolo narrativo: la nevrotica ricca, con la donna delle pulizie in ferie. Un cliché. Una leggenda metropolitana. E invece eccola lì, bofonchiare ad alta voce, mentre come una pazza, raccoglie i cestelli di tutte per impilarli compostamente in un angolo. «Per forza, per forza che non riusciamo a seguire le file! Guarda qui, che disordine! Tutte, dico, tutte noi, nessuna esclusa, abbiamo la donna delle pulizie che ci sgombera il passaggio ad ogni angolo di casa ed eccoci qua, come finiamo quando vanno in ferie. Perdiamo completamente la bussola e dobbiamo fare da sole anche le cose più difficili. Via! Via questi cestelli. Ordine. Oh Dio, mi sento mancare.» Afferro e metto sul nastro le ultime due o tre cose, prima che possa derubarmi del carrellino a traino rivolgendomi un secco « Sfaccendata e distratta! Tsè.» Penso che forse conosce mia madre, che da anni mi attribuisce tali qualità. Ma non credo. L’unica donna delle pulizie di mia mamma, ero io quando ne combinavo una grossa. La nevrotica abbandonata dalla donna delle pulizie inizia a singhiozzare. Il bambino strilla come un matto perchè vuole tornare nel passeggino. A una delle due sfidanti da corsie il bancomat si inceppa e lei inveisce contro la cassiera. Bette Davis inizia a spingere la signora col pane e il latte, che si giustifica con una confezione di mazzancolle surgelate, ma pare non voler reagire. Le ho lasciate così. Ero in ritardo e dovevo andare. Però ho immaginato un finale da lotta nel fango. Camminando verso casa, ancora una volta la morale di una banale avventura quotidiana è diventata la riposta ad una domanda in testa da giorni: capita sempre nelle ripartenze che tutto sia confuso. E’ la crisi necessaria alla ripresa del lavoro ordinario. Una specie di Big Bang prima che l’universo possa tornare lentamente a espandersi. La cosa migliore in quel momento è essere la Valeria di turno, la cassiera scomparsa. Tanto il giorno dopo, quando tutto sarà tornato alla normalità, nessuno si ricorderà di quel che è successo davvero nel momento di caos. Buon inizio stagione a tutti, amici e colleghi. Calma e gesso, ‘ché da qui a giugno la strada è lunga.

Disperato, gassato ed ero(t)ico stomp.

cokez

Consegna a domicilio non prevista. Stop.
Ho detto stomp, non stop.
Non c’è tempo per uno stomp adesso, devi lavorare.
Roger. Ma necessito con urgenza di gassata scura in versione Zero. Tre supermercati sprovvisti. Stop
Mettere naso fuori di casa e ricorrere ad alimentarista di fiducia. Concesso. Stop.
Roger. Infilo scarpe. Passo e chiudo.
CocaColaZeroCocacolaZeroCocaColaZero. Ti amo. Ti bramo. Ti soffro. Faccio al volo la conta delle mie dipendenze del passato e orgogliosamente mi vedo al pari di gente che sta simpatica a tutti, tipo Keith Richards. Decido di non dar peso al fatto che la dipendenza da CocaCola Zero sia molto meno rock’n’roll di quella da rum, da un tale che non mi voleva, da quell’altro che non mi voleva pure, dalle gomme alla cannella, dal fumo, dai minestroni della Knorr, da certi dischi, da quel tizio che in fila dopo gli altri due continuava a non volermi. Mi sono umiliata molto più così. Piglio il cane che mi guarda terrorizzato, chiedendosi dove cazzo andiamo malvestiti e spettinati, dopo tutti questi mesi tappati in casa tra un lavoro e l’altro, e si va. A giudicare dal tepore e dal fatto che alle sei sia ancora giorno, dovremmo essere ad Aprile. Sì infatti, lo dicevo stamattina in radio che era “qualcosa Aprile”. L’ultima cosa che ricordo , prima della “nuova condizione” era la striscia di mezzeria della strada su cui stavo facendo jogging un sabato mattina. Era Agosto. Mi ricordo che all’improvviso ho pensato che non volevo più fare le cose che facevo, che ne volevo fare altre, che le volevo fare tutte e tutte insieme. E che mi piaceva solo Radio Rock. Ma cosa mi viene in mente  di mettermi a pensare? Finisco sempre per combinare un sacco di guai. E invece io penso. Maledetta. Ho impilato ore, impegni, files, canzoni, format, spot, lanci, radio, tv, web. Casa solo per il computer e per il letto. A volte. Disastri coniugali e relazionali di cui Michael Douglas sarebbe stato invidioso.  Ora mi ritrovo con questa bella torre che ogni volta che la guardo dico “cade cade cade”. Penso a delusioni, a grandi imprese, a una thailandese, ma l’impresa eccezionale, dammi retta è non essere asociale. Saluto la cartolibraia. Mi ha riconosciuto, o forse è solo gentile con tutti. Il cane dopo tre passi fa per tornare verso casa, pensando che sia la solita pisciatina sotto il portico. Quando capisce che scendiamo giù tra la gente reale, cioè non quella che sta dietro allo schermo, dove lui crede che ci siano tutti quei canetti simpatici che gli faccio sempre vedere su Youtube, ha un sussulto e si mette a correre. Per stargli dietro, tenendo il guinzaglio con il braccio teso vado a sbattere contro il palo della bacheca delle affissioni funebri. Leggo di un signore che conoscevo ai tempi del Liceo. Ne danno il triste annuncio i familiari e bla bla bla. Mi spiace molto. E all’improvviso mi viene in mente quella cosa fastidiosa della morte, che uno, magari mentre sta facendo cose importanti, piglia e se ne va. Mio padre è ancora tra noi, grazie al cielo. O grazie alla terra, dipenda da in cosa si crede. In famiglia sono impazziti tutti. Io no. Lo ero già da prima quindi nessuno nota la differenza, anzi gli amici di famiglia dicono che sono l’unica a non aver perso la bussola. Vedi che vantaggio a non averla avuta mai? CocaCola Zero. La apri e fa Fruushhhh. Ne ho bisogno. Vorrei fermarmi da Marcello ma va a finire che poi resto tutto il pomeriggio. E devo lavorare su quelle puntate nuove da consegnare. Me lo andrei a sentire un disco con Marcello e  a bermi una birra con lui. Gli amici mi mancano tutti. Quelli del bar dove sta Vale, tanto. Ma il punto è che  qualche mese fa ho scoperto di aver perso quarantamila euro con quell’idea meravigliosa di fare l’imprenditore e mi sono dovuta concentrare su altro che non fare le cinque del mattino ridendo e bevendo rum.  CocaCola Zero. Se non ce l’hanno nemmeno al bar del circoletto mi metto a urlare. Proprio mentre cerco di superare l’impasse del conto degli zero nella cifra quarantamila, immaginando il rumore di quando la versi nel bicchiere che è tipo CtohlCtohlCtohl, mi imbatto in un capannello di negozianti. Mi fermo a salutare e ascolto i discorsi come il vecchietto che guarda i lavori stradali. Quando sento dire “piccoli commercianti” dal più arrabbiato di loro nel difendere la categoria, inizio a immaginarli come come Umpa Lumpa.  Il tizio, con cui sono tutti d’accordo, dice che è giusto che il supermercato abbia chiuso, che l’abbiano espropriato e che siano stati tutti licenziati, perchè da quando ci sono i supermercati gli Umpa Lumpa, cioè i “piccoli commercianti” non lavorano più. Vorrei far notare che non è giusto per i poveri cavalli, che si sono fatti un mazzo tanto per avere un posto nella storia dei mezzi di locomozione, che adesso con questa storia dei motori su ruote, non ci sia più lavoro per loro nel trainare carrozze. E anche che con questa mania del telefono dobbiamo smetterla  e restituire ai piccioni viaggiatori la loro dignità. E scrivere le lettere a mano, perché la canzone Mr Postman torni ad essere una hit. Fingo approvazione, anzi mi scappa anche un “Che tempi Signora Mia” nei confronti della fruttivendola. Accanto a lei sono esposte delle bellissime mele Granny Smith. Quasi, quasi… Con la CocaCola Zero, non ci starebbero male. Quattro euro e sessanta al chiilo. Per le fragole le faccio un bonifico più tardi? Che prezzi, signora mia, speriamo che riaprano il supermercato, va’, sennò quelli che ci lavoravano e ora sono disoccupati come fanno a comprarsi le sue mele? Pochi passi e il mio alimentarista-fornaio di fiducia mi sorride dicendo che, anche se non mi vede da mesi,  la CocaCola Zero ce l’ha. Una sola. Ed è mia, se la voglio. Ce l’ho fatta. L’afferro. La pago tre euro, sempre per il discorso del supermercato, ma l’alimentarista-fornaio mi guarda e non mi dà il resto. Dice che sono magra. Troppo. Quindi perché Zero? Perché l’altra non mi piace. Ma ti ci vuole lo zucchero. Anzi i carboidrati. Compra un po’ di pane. No, non lo mangio più il pane. Guarda tu queste ragazze. Va a finire che stanno male malissimo e invece bastava che comprassero un po’ di pane. Compro il pane. Ne stacco un pezzetto e lo mangio per convincerlo a darmi il resto, ‘ché devo andare a bere la mia CocaCola Zero. Il pane è terribile. Davvero. C’è da volergli tanto bene all’alimentarista-fornaio che da quattro anni ci vende il pane e le CocaCola Zero. Perché a farlo non è proprio capace, ma ha un talento unico nel riuscire a farlo tutto uguale, dalle rosette al lariano, al francese. E’ una cosa che fa lui. Solo lui. Come Astariti che fa l’Urlo della Notte nel film La Scuola. Risalendo verso casa decido di fare la strada più lunga. La metafora mi colpisce e rallento il passo per rifletterci. Se ne accorge anche il piccolo e si gira a guardarmi come per perdonarmi di essere così. Mi abbasso ad accarezzarlo e ripenso a quando un paio di mesi fa eravamo sul divano a piangere mentre lo operavano e sapevamo che forse non l’avremmo rivisto più. La CocaCola Zero mi sta raffreddando il pane e pesa anche. La voglia ce l’ho ancora ma non riesco a muovere più un passo. Resto ferma, di sasso, sotto il sole d’Aprile a chiedermi come ci sono arrivata  fino a qui. Valla a capire la vita: la guardi come fosse quella di un altro e poi all’improvviso ti accorgi che eri tu. Sei tu. Tremendo sospetto. Mi vengono in mente, nell’ordine: Il Papa, David Bowie e una mia compagna di scuola al liceo. I primi tre avatar a cui sono riuscita a pensare. Era un test. Il sospetto è confermato. Dico il nome di una persona qualunque. Tac. La immagino come nella foto del profilo. Tremo ma devo farlo: mio marito. Tac. Foto del profilo. E soprattutto: io. Foto del profilo e immagine di copertina! Aiutateci. La società distopica paventata da Philip K. Dick! Eccoci. L’apocalisse del sè. Cosa è reale? Riprendo a camminare a testa bassa, come se qualcosa m’avesse colpito alla testa. Ho tanta voglia di CocaCola Zero. Ah già. Ce l’ho qui. Devo solo infilare la chiave nella toppa. Signora scusi ma le sembra normale che la luce delle scale resti sempre accesa? Qui dobbiamo chiamare l’amministratore. Simpatico vecchietto della porta accanto. Taglio corto e dico che io non so nulla, io pago l’affitto. Ma come non sa nulla? E qui dobbiamo parlarne. Non adesso. Non mi va. Non riconosco la foto del suo profilo, quindi lei non esiste. Nella vita reale, in questa vecchia vita qui, dove il vicino ti ferma per le scale senza chiederti se hai da fare, non puoi chiudere la chat dicendo che stai uscendo. E’ terribile. Rivoglio subito la mia scomoda società distopica fatta di profili, e avatar, e hashtag. Dove controllo io tutto. Dove esiste la contemporaneità delle azioni. Dove il multitasking è praticato anche dagli uomini, non solo dalle donne. Dove tutti questi lavori, doveri, impegni, obiettivi di cui ho riempito le mie giornate, possono convivere con la  nostalgia di una vita diversa e con l’idea di averla ancora, come quando suonavo i dischi in spiaggia da mattina a sera. Mi sono impuntata , lo so. La felicità che sto cercando è come questo Fruushhhh. Ma sono troppo arrabbiata per rinunciare a questa stupida, gassata, inutile CocaCola, che è pure Zero, quindi senza calorie, zucchero e contenuti. Ho fatto la strada più lunga per portarla a casa, e mi rendo conto che il piano può risultare poco chiaro a qualcuno, mentre per me lo è, eccome. Non so bene con chi o con cosa sono arrabbiata, ma è andata così. Metto il culo sul divano, solo per un momento. Non so se inviarlo, quel provino. Un altro guaio.  E’ tardi. Faccio le mie scale tre alla volta verso lo studio, afferro la tastiera, guardo il file del romanzo messo da parte, resisto alla tentazione di aprire vecchie foto o riordinare i dischi che volevo mettere dentro Wasabi e con dolcezza, mi chiedo se è o no il caso di premere Enter… ma è già partita la mia mano.

Last Christmas è stata solo culo.

santa5Sì, ho detto culo. Ma che non mi si fraintenda. L’immagine di retro copertina del singolo, datato 1984,  in cui “George – Babbo Natale”, cavalca simpaticamente Andrew vestito da renna, non vuole sottolineare altro se non la gioia e la sorpresa dipinta sul volto dei due, nel momento in cui hanno realizzato di aver fatto il colpaccio del secolo. E pensare che neanche la volevano pubblicare. La canzone dico, non la foto. George l’aveva scritta per Pasqua. Era un noioso pomeriggio di fine Ottobre, non aveva niente da fare e aveva pensato di scrivere una canzone per Pasqua. Vai a capire perché. Si chiamava Last Easter. A Andrew piaceva così così, non gli suonava bene quella cosa di “the very next day”, ma comunque c’era tempo prima di pubblicarla. Per Pasqua. Pensa come sarebbe stato il mondo se gli Wham! avessero girato un video ambientato nel corso della classica braciolata di pasquetta. Vabbè comunque il punto non era Last Easter, ma piuttosto che bisognava trovare subito un lato B per Everything She Wants, che sarebbe stata la loro canzone di Natale. Ora, io da questo pensiero non esco da giorni, me ne sto facendo una malattia: quale raggio divino illuminò in un momento qualunque, di un giorno qualunque, un qualunque individuo, dello staff di produzione degli Wham! che, senza apparente motivo alcuno disse “Ma scusa, pigliamo Last Easter, facciamola diventare Last Christmas e la mettiamo come lato B”? Pensa che idiota deve essersi sentito quando tutti l’hanno deriso per aver anche solo pensato di sfidare Bob Geldof, che stava per sfornare Do They Know Is Christmas?. Lui, il tizio dello staff, deve aver puntato i piedi. Mi sa che era un pezzo grosso. Insomma, chiunque fosse, ha inventato il Natale per la seconda volta. Così, senza pensarci. Ieri mi sono presa una pausa dai cinque lavori che sto facendo ora e ho messo le canzoni di Natale dentro Wasabi. Poi ho anche fatto l’albero. Sono stanca. Non lo sono mai stata così tanto e onestamente ho un po’ perso la bussola. Non che l’abbia mai avuta, ma stavolta lo smarrimento mi rende più triste del solito. E poi, all’improvviso, accendendo la tv… Last Christmas. Le cose che restano. Di più: le cose che fanno restare tutte le altre, perché le impregnano talmente tanto della loro presenza che finiscono per diventarne l’essenza. Quando suona Last Christmas, il Natale è dappertutto. Come se non fosse passato neanche un giorno da quando Johnny Parker la presentò per la prima volta a VideoMusic. E io, nel 2013,  immobile, col telecomando in mano a sentire all’improvviso quell’odore buono dei giorni in cui in casa c’erano tante persone, tra cugini, zii, parenti di cui non sapevo il nome. E si andava a giocare fuori anche col freddo. E nonna mi aveva tenuto da parte una fetta di Pandoro, perché lei lo sapeva che mi svegliavo tardi. Io quei giorni li rivorrei disperatamente, e questo mi fa incazzare. Anzi, ci sono due cose che mi fanno incazzare: rivolere quei giorni per non aver avuto il talento di crearne di nuovi belli così, e il non aver inventato una cosa come Last Christmas. Ancora. Mi sono organizzata in tutti questi anni solo per potere imparare un giorno a inventare Last Christmas e invece ieri, chiedendo a Daria quale fosse il segreto secondo lei, m’è venuto in mente che forse Last Christmas era stata solo culo. E infatti. Last Easter non avrebbe funzionato mai. Quella strana combinazione di fattori per cui, elementi diversi, innocui, incongruenti, come due frasi  sbagliate del tipo  “i gave you my heart” e  “the very next day”, si combinano in un’alchimia inaspettata, semplicemente invertendo la Pasqua col Natale, è solo culo. O forse no. C’è solo un’altra possibilità. Forse il tizio che tirò fuori l’idea di farla uscire in versione natalizia era innamorato perso di una sua ex. Sapeva che l’avrebbe rivista a Natale e aveva un po’ fantasticato su come sarebbe stato incontrarla di nuovo. Ed è stato lì che ha sentito l’assoluto bisogno di Last Christams, perchè con Do They Know Is Christmas?, puoi sognare di salvarci il mondo, ma non puoi cullarti un vecchio amore tanto da farlo diventare immortale, meraviglioso, più bello di tutti gli altri. E quindi ecco la risposta: se soffri per amore hai poteri magici insperabili. Mmh. Questo lo so fare, m’organizzo in un paio di giorni e ritorno in modalità “broken-hearted” come e quando mi pare. Avverto gli amici. Così si mettono tutti a pregare che mi dica culo.

Quasi un sentire.

virginia-w E invece no. Un forte credere. Più combattivo del camminare sul cemento con i piedi cosparsi di pece. Più duro del cuore, quando il cuore diventa un sasso. Più giovane del vino ancora nella botte e per questo vivace, vivo, vivido, vivente. Tenace come un male che nessuno vuole. Limpido al punto da non essere visibile all’occhio disattento. Luminoso e tronfio ma cupo nel profondo come un’anima rivoltata su se stessa, messa all’incontrario con le cuciture sbagliate in vista. Sola. Solo. Solitudine del salire le scale al verso contrario. Disappunto del vicinato e sussurro continuo come fosse pioggia. Seppur asciutto nei sentimenti e di sentimento. Crudele e incapace di prudenza. Vincitore infine sulla pazienza, sul convivio, sulla sua morte e sul silenzio. Ma in quel momento solo silenzio c’è al suo cospetto e ancora silenzio tutt’intorno, nel vorticoso e rivoltante odore della supremazia innata di questo modo d’essere, marcio, violento, compromesso eppure magnifico. Solo un piccolo, microscopico ricordo di quel che s’era sperato di dare, di imparare , di concedere. Fallito il tentativo di circoscrivere, irrompe naturale e tutto distrugge. Solo la facoltà, in un istante, di poter salvare chi è accanto e non comprende. Via. E’ un gioco privato la vita. Non so dire come e se lo sia quella altrui, ma la mia, di certo. Miei i sassi. Mie le tasche. Mia la corrente. E ovunque mi porti, che io sia corpo leggero e senza resistenza alcuna, perché sola. E non c’è altro. Solo questo.