La La Love ovvero «Vorrei che ci si potesse amare»

Ma il Magico Accordo è un’illusione. Sai Hubbell, con gli anni sono diventata sempre più certa delle cose di cui sono certa, eppure qualche bugia continuo a raccontarmela. Sono K-Katie, e anche Jimmy, ma oggi mi chiedo se mai potrei essere Seb. E’ un talento quella volontà di amore che trascende ogni altra urgenza. E io quel talento non ce l’ho. Facciamo ordine, adesso che il puzzle è completo.

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La La Land è arrivato a conferma dell’unica soluzione che ho sempre considerato plausibile: se sei così la resa è inevitabile, ma c’è un universo in cui le cose sono andate diversamente e solo lì quel Magico Accordo continuerà a suonare indisturbato.

 

In My Secret Life (Ode To Leonard Cohen)

Qualche volta mi metto per gioco a contare le canzoni che conosco. Perdo sempre. Nel senso che mi fermo alle prime dieci che mi vengono in mente, ci faccio una playlist su Spotify e poi penso a una trasmissione per la diretta in radio. Quando non esisteva Spotify, ci facevo un cd. E prima ancora una cassetta. E’ solo il mezzo che cambia, credetemi, a noi deejays, non ce ne frega niente del tempo che passa e della tecnologia che avanza: abbiamo sempre un cuore di pezza, che continua a scucirsi perchè a volte si gonfia a dismisura. Che strano lavoro, questo nostro. E’ un segreto continuo. La verità è che io non voglio lasciare l’Italia per non dover imparare a fare questo lavoro in un’altra lingua, perchè non c’è nessuna lingua come l’Italiano. Puoi dire una cosa e significarne un’altra, celare un segreto eppure sembrare trasparente come l’acqua. Alcuni amici che fanno questo lavoro mi capiranno. Ci intendiamo. Ognuno conosce i segreti dell’altro solo dall’ascolto delle canzoni scelte, o dalle frasi pronunciate tra un disco e l’altro. Ognuno però, per un tacito accordo, si fa i fatti propri, anche se qualche volta ci mettiamo a vicenda quei like su facebook che significano “Io lo so ma non lo dico a nessuno”. Anni fa erano una pacca sulla spalla, non cambia mica nulla. In questo continuo lavoro di segreti nascosti ci sono tre canzoni d’amore che spiegano il mondo, secondo me. No, non è vero, sono molte di più. Ma queste tre sono le conversazioni che uno col cuore di pezza fa con se stesso in alcuni momenti fuori dal tempo. I momenti fuori dal tempo non capitano tanto spesso. Per fortuna, forse. Perchè quando ti capitano ti cambiano talmente tanto la vita che poi il resto del tempo ti sembra per sempre inutile. E’ come quando stai facendo una cosa importante e all’improvviso tutto si ferma e rimani da solo col mondo immobile intorno a farti domande strane e a guardare come se non avessi mai visto.
La prima è una canzone di Tom Waits che si intitola I Hope That I Don’t Fall In Love With You. Una volta discussi con Ghè, che è un grande autore: lui diceva che per me i testi delle canzoni contavano troppo. Ma poi quando parlammo di questa canzone lui fu d’accordo con me. In quella canzone Tom Waits nella mia testa fa il barista. Uno così o suona il piano o fa il barista. Diciamo che suona il piano, ma per me fa il barista. La cosa certa è che lavora in un locale. E in quel locale con lui lavora una ragazza che forse serve ai tavoli. L’intimità che si crea tra quelli che lavorano insieme in un locale, e si ritrovano a parlare e bere e giocare a carte insieme prima della chiusura è un’intimità senza speranza. Ci si innamora per forza. Il mondo fuori diventa piccolissimo. Poca gente, poco rumore, tante luci e sogni lucidi. Gli spazi si allargano, le parole diventano pesanti, si dice solo il vero, si mangiano cose piene di calorie, si crede a tutto e si immaginano mondi bellissimi. Non so come è che succede, ma succede così e dopo qualche tempo tra un locale e l’altro, quando capisci come funziona il gioco, e dopo aver ricominciato daccapo mille volte, arriva un momento in cui, seduto su uno sgabellino, in un angolo dici a te stesso, guardando verso di lei “Spero solo di non innamorarmi di te”. Però è già successo, è già tardi. Ecco, quella canzone è quel momento. E se io ci ripenso adesso, quell’attimo in cui speri di non esserti innamorato di una persona, anche se sai che quando tornerai a casa ci penserai, e ti metterai nel letto e sorriderai per quella cosa che ha detto, sapendo che era per te e solo per te, ecco quel momento è tutto, e io vivrei altre venti vite solo se mi dicessero che in ognuna di quelle ci sarà almeno un momento così. E Tom Waits ci ha scritto una canzone. Beato lui. Ho sempre pensato sì, beato lui, che l’ha vomitato in una canzone quel pensiero e non ci deve sempre tornare ogni tanto, riascoltandola, come faccio io.
La seconda canzone che spiega il mondo l’ha scritta naturalmente Bob Dylan, ed è If You See Her, Say Hello. Bob Dylan mi sta tantissimo antipatico e a quella storia che dice che è morto tre volte e ogni volta è stato rimpiazzato da un sosia diverso, io ci voglio credere, perchè non posso credere che uno così antipatico abbia potuto scrivere una cosa tanto bella. E’ la canzone che ti canti quando pensi che lei se ne è andata perchè è colpa tua, e che ha fatto bene ad andare via, ‘ché almeno lei s’è salvata, e che quella separazione ha salvato pure te. Ma in cuor tuo speri che lei stia di merda e stia soffrendo senza di te. Speri che qualcuno gli dica che t’ha incontrato e, anche se a quella persona dirai “Falle credere che non mi manca affatto” ti farai un film su come le racconteranno di te e magari lei sospirerà. Tanto a te che t’importa? T’importa, maledetta. Il punto è questo, ed è l’unico punto che abbia mai contato al mondo: ci sono persone che stanno insieme per sempre, anche se si lasciano, anche a mille miglia di distanza. Quella cosa delle separazioni e dei matrimoni con altri, e poi la vita che passa, e gli acciacchi e cento figli, lavori diversi, uno ricco e uno povero, o uno nero e uno bianco, insomma tutto questo semplicemente non è importante. Arriva qualcuno che c’era da sempre, ci parli mezz’ora, poi cammini un po’ e ti racconti la vita, fai l’amore o anche no, tanto è lo stesso, perchè ti riconosci la pelle l’uno nell’altro e non è che te lo spieghi, è un assioma, è solo così. Poi va via, ma continua a esserci. E non c’è nessuna possibilità che di quell’alchimia ti sia accorto solo tu e lei no. Così in isolati e solitari moti di ribellione nei confronti di un Dio, la cui esistenza è provata già solo per il fatto che deve pur esserci un forza superiore che ha pensato tale beffa , altrimenti non si spiega, ti dici che sei solo tu a pensare a lei e che speri stia bene. Quante balle, tutte in un’unica, sola, meravigliosa canzone. Maledetta di nuovo. Lei e la canzone.
La terza e ultima è il motivo di questo post.
L’ha scritta Leonard Cohen che ha scritto molte canzoni bellissime prima di questa, che è del 2001 e si intitola In My Secret Life.
L’altra mattina quando ho letto della sua scomparsa mi sono molto commossa, più che per la sua assenza, motivata comunque dall’età, per il suo saluto al mondo, un po’ come Bowie aveva fatto qualche mese fa. Avevo letto in radio un’intervista in cui presentando il suo disco aveva detto che davvero si trattava di un saluto, che era arrivato il suo momento e che quella era un po’ un’elegia a se stesso. Forse la vanità ci salverà più che la bellezza? Ci ho pensato, perchè sia lui che Bowie non hanno voluto che fosse qualcun altro a salutarli, ma giacché c’erano hanno fatto un gesto del tipo “Scusa, non conosco nessuno che sappia farmi il discorso funebre come me lo farei io, quindi: eccolo.”
Giusto.
Se muoio stanotte, per colpa di questo sushi che ho sullo stomaco, facciamo che questo post è il mio saluto al mondo e che la mia canzone sarà If You See Her, Say Hello.
Ma se avrò invece tempo per ancora far finta che sia in un modo diverso da come alcuni giorni sono, suonerò ancora questa In My Secret Life. E’ la canzone della soluzione, io credo. Mio cugino Johnny, che amo molto, mi ha insegnato tempo fa una cosa: “Devi fare come se”. Quando la vita non è esattamente come vorresti tu, devi fare come se lo fosse. Nel cuore di pezza ricucito, custodisco una vita parallela, una vita segreta, in cui alcune cose sono andate diversamente da come ricordo. In questa vita segreta a volte ho tempo per sedermi sulla spiaggia, per ridere come facevo in quei giorni che non dimentico. Per essere ancora la bimba piccola di mio papà. Nella mia vita segreta ci sono tante cose di me che ora non mostro più. Ognuno, io credo, ha diritto a una vita segreta. Per questo non dirò di più e solo la suonerò domani in radio.
Poi magari un collega metterà un like alla playlist e io saprò che è anche un po’ la sua.
Ma, giuro, non lo dirò a nessuno.

In my secret life
In my secret life
In my secret life
In my secret life
I saw you this morning
You were moving so fast
Can’t seem to loosen my grip
On the past
And I miss you so much
There’s no one in sight
And we’re still making love
In my secret life
In my secret life
I smile when I’m angry
I cheat and I lie
I do what I have to do
To get by
But I know what is wrong
And I know what is right
And I’d die for the truth
In my secret life
In my secret life
Hold on, hold on, my brother
My sister, hold on tight
I finally got my orders
I’ll be marching through the morning
Marching through the night
Moving cross the borders
Of my secret life
Looked through the paper
Makes you wanna cry
Nobody cares if the people
Live or die
And the dealer wants you thinking
That it’s…

In uno strano periodo della mia vita…

DSCN0405Diventavo un albero, una volta a settimana.
Mi avevano consigliato la teatroterapia per risolvere i problemi con me stessa, così, io e me stessa,  ne abbiamo parlato un po’ e poi abbiamo iniziato a seguire un corso in cui imparavamo a rotolare, a saltare, a camminare a respirare e infine a raccogliere le forze per diventare  albero. Io sceglievo sempre un albero strano, tanto che l’insegnante mi chiedeva perchè  non riuscissi mai a decidere che forma dare ai miei rami. Le rispondevo che era colpa di me stessa, che lo voleva bello e affascinante, eccentrico e ammirato, con la chioma tonda e ricca, un albero che andasse in tv. Questo ci faceva perdere un sacco di tempo e andava a finire che mentre gli altri del corso si godevano l’aria fresca della sera tra i germogli dei loro rami, noi, in bilico e senza radici, non riuscissimo neanche a capire se fosse inverno o primavera, se avessimo bisogno d’acqua, se fosse di qualche utilità la nostra presenza nell’ecosistema. Il corso è finito prima che io e me stessa potessimo scendere a patti. Il tempo è passato e io ho guardato il panorama da tente stanze, studiando gli alberi intorno alle colline e quelli dei giardinetti di periferia, imitandone le forme nel tentativo di cercarne una mia, sempre convinta che sarei stata un buon albero solo quando i passanti mi avrebbero notato. Mi sono arrabbiata e ho scavato presuntuosa la terra, facendomi sanguinare le unghie, urlando che non era giusto che non ci fosse posto per me.

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Stasera ho ritrovato questa foto, di quella volta che mi sono imbattuta in questo albero qui, in un parco che sembrava lontano dal mondo.  L’ho toccato. Tutti lo toccavano. Tutti scattavano foto. L’albero firmava autografi. Io ho chiesto a me stessa se davvero quello lì fosse migliore di altri, se fosse più felice, più sano, se avesse radici forti. Le ho chiesto se riuscisse a distinguerlo dagli altri che la mano paziente dello stesso giardiniere aveva scolpito tutti uguali e se davvero l’intenzione di quell’albero lì era di essere così.
Me stessa è stata finalmente zitta e io, ho ripensato alla fatica dei miei rami che in questi anni, senza che io potessi accorgermene, hanno preso la forma che volevano, che già c’era forse.
Non posso dire di me stessa che fosse stupida.
Posso dire solo che fosse giovane.
Ma è stato divertente capire cosa non andava, è stato divertente capire cosa voglio veramente, cosa davvero conta per essere felice.

Non è il successo, ma il sorriso. Le radici, la virtù, e i fiori a primavera per i passanti.

Il giorno di mai.

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Diventa il giorno di oggi senza che nessuno t’abbia avvertito. Se ne era parlato per un certo periodo, tra i farfugliamenti notturni col soffitto. Sarebbe potuto arrivare, sì. Ma poi non c’era stato e pace. Life goes on, ch-ch-changes e bla bla bla. Mi piaceva scrivere. Più ci ripenso e più mi piaceva. Poi ho smesso. Mi piaceva anche inventare storie con dentro almeno un amore, un fenicottero e una canzone. Ero felice solo se inventavo una storia nuova al giorno. Non dovevo scriverla per forza, mi bastava inventarla e sognarci un po’ su per farla diventare un’altra cosa. Una playlist, una trasmissione, un lavoro, una radio, un algoritmo. Un coso qualunque che avessi fatto io. Ci pagavo le bollette appena, con quel qualunque coso avessi inventato. Valeria mi diceva sempre che per me funzionava come per il protagonista di quel monologo che aveva portato a teatro. C’è chi per non morire crea. Poi a un certo punto, da qualche parte, devo essermi stancata. I debiti, le delusioni, i fallimenti, la malattia di mio padre, mai tempo per amici e amori, la confusione. La vita reale che improvvisamente riesce  a farsi sentire anche da te, che non hai mai risposto al telefono a nessuno proprio per paura che fosse lei. Così dici basta. E dicidi, come io ho deciso, che è tempo di fare le cose facili, quelle che non si pensano, quelle che si fanno e basta. Non è che non sei più tu, solo sei tu con un pezzo di te che dorme. Non se ne accorge nessuno. Smetti pure di fumare, tanto non serve a nulla fumare se non devi inventare qualcosa. Ho chiuso la web radio, pagato gli ultimi debiti del progetto imprenditoriale fallito, messo via il romanzo che non finirò mai. Buttato via le compilation degli anni del Mecs. Riposto i disegni di quella linea di moda che avevamo pensato io e Ale. Chiuso il blog di cinema. Ho perso i codici di tutte le applicazioni inventate per il sito. Ho persino riportato la chitarra in soffitta, tanto era proprio impossibile che riuscissi a imparare a suonarla se non ci ero riuscita in vent’anni. Non ho più scritto neanche un sola idea  da inviare a chissà quale radio in Alaska. L’ultima cosa che ho inventato è stata la soluzione facile. No, non così facile, per quella ci vogliono i vent’anni che non ho. Ma facile del tipo: “tu mi dici cosa devo dire e io lo dico”. Un’idea geniale: lavorare e basta. Per un po’ ci ho anche creduto che avrebbe funzionato. Ma il telefono non ha suonato.

Le altre volte in cui ho fallito, ho tirato dritto. Avrei avuto qualcosa altro da inventare. Oggi invece è il giorno di mai. Il giorno in cui anche quelli come me, con mille risorse, se ne stanno seduti in un angolo. Non per la delusione. Magari fosse quella, ne farei brandelli nel giro di tre giorni. No, è la consapevolezza il mio assassino. Ho trovato questa foto, e non è un caso che l’abbia postata Johnny. Tutto è stato chiaro.

Nel giorno che mai credi sarebbe arrivato capisci che l’unica illusione che davvero t’ha rovinato è stata quella di credere di poter essere qualcuno che non sei. Le cose vanno come devono andare per te, non come devono andare per chiunque.  E’ allora che, in un istante, tutto inizia a fare male. Tutte le cose perse, finite, mai realizzate, le imprese fallite. Non ci avevo pianto mai. Piango solo guardando i film, o quando sono molto arrabbiata. Ma oggi, che ho capito che solo le strade difficili sono le mie, sono precipitata quaggiù, in mezzo ai cocci di cose passate, che non avevo mai voluto raccogliere. La cosa più onesta che posso fare e ripartire da lì. Ma prima, trovare la forza.

A Michela-Wong-Foo, grazie di tutto. Brigitte Bardot.

brigitte bardot -  the real thing La teneva in mano, come se Brigitte in persona, gliel’avesse davvero firmata e mi veniva incontro, con il sole alle spalle, in un pomeriggio di venerdì. Uno dei tanti in cui ci incontravamo, ma quella volta era il mio compleanno. Brigitte era il mio regalo. Un biglietto “quindici-quindici”. Diceva che non aveva ma visto un’espressione così somigliante a quella esatta che avevo io quando andavamo a ballare. Io non so se le ho mai creduto davvero, ma m’è sempre piaciuto pensare che quell’icona di gioia e luccicanza sarebbe stata una buona aspirazione dell’essere. Negli anni Brigitte m’ha seguito ovunque. O forse io ho seguito lei, non so. Stanotte ancora non mi guarda. Balla e pensa ai fatti suoi. Se ne sta lì, ormai stinta e segnata dal tempo, appesa con una puntina alla parete di questa stanzetta che ho voluto chiamare studio, perchè “ripostiglio” non sarebbe piaciuto a Brigitte. Ne ha viste almeno dieci di case diverse, e molte più stanze, e pareti, la mia Brigitte. Mai s’è scomposta. Era lì nella foto della prima trasmissione in radio, e anche in quella in cui mi truccavo, vestita da sposa. Buffo che il fotografo l’avesse voluta nella foto, senza che io gli dicessi nulla. Ci ho pensato e ripensato. Ho pensato agli oggetti preziosi. Ecco, ho deciso che questo biglietto ingiallito e stropicciato con Brigitte che balla, è il mio oggetto più prezioso. L’unica cosa che davvero mi appartiene. Ho discusso talmente tanto, con tutti,  nel tempo  sull’argomento “Quel che resta”,  che adesso fingo di non sentire quando se ne parla. Io credo che nella vita ci si incontri, ci si conosca, si vivano delle cose insieme, e poi ci si separi, restando tutti un po’ più ricchi di come si era prima di conoscersi. Punto. Non vedo la tragedia. Di Michela-Wong-Foo ho ancora quel pomeriggio in cui, mi raccontava della bellezza. La bellezza secondo Michela è in un pomeriggio di febbraio, quando stai bevendo un tè seduto al tavolo di un bar, e ti accorgi che dalla finestra alla tua sinistra entra un po’ di sole del tramonto. Ti volti e senti un po’ più caldo’, poi la luce vira e diventa una specie di prisma che punta sulla superficie del tavolo. Tu ci guardi attraverso e vedi il pulviscolo che si muove. Ecco, quel movimento è la bellezza. Non l’ho mai capita bene questa cosa, lo confesso. Ma per tutti questi anni me la sono tenuta esattamente così come l’ho scritta adesso. Pertanto non credo che Michela potrebbe esserci più di come già c’è. Lei l’ha sempre saputo che entrambe la pensavamo così e che forse eravamo le uniche due a non avere bisogno di dirselo. Ecco perché m’ha regalato questa Brigitte. Perchè non dimenticassi il pulviscolo che balla attraverso la luce. Il resto, fa volume.

Accanto alle montagne…

…spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. 
Ti dice: “La terra è un tamburo, pensaci”
Noi, per seguirne il ritmo dobbiamo far attenzione ai nostri passi. (cit. Toro Seduto)

Guardo i miei passi diventare pesanti.
Ho le scarpette rotte e forse quella stessa terra che suono come un tamburo  mi ha punito per la mia superbia. Mi dice “rallenta!”, mi dice “ascolta il ritmo, non suonare come fossi l’unico martello a picchiare sul sentiero”. L’ascolto. Mi fermo e capisco la regola della canzone che andiamo suonando: il rispetto. Ognuno il suo tempo, ognuno la cadenza che vuole, ognuno il suo movimento nel guidare armonico i piedi e il corpo con essi, ma senza mai fermare la danza di chi è accanto.
Ho le scarpette rotte, ma conosco il rispetto. E’ una danza un po’ goffa questa mia. Ma ancora suona. Tum Tum Tum. E’ goffa nel divincolarsi dalle braccia che mi vorrebbero ferma. E’ goffa nello sfuggire ai piedi che calpestano i miei.E’ goffa nel cercare il ritmo che non trovano più. Qualcuno accanto dondola solo con la testa e apre la bocca per seguire un coro che mi distrae, che è senza tempo, che non resta. Qualcuno ancora fa un suono assordante picchiando coi calcagni, non per danzare, ma solo per farsi sentire più degli altri. Qualcun altro sta immobile, fermo a spiare in silenzio i miei movimenti, per capire quale sarà il suo passo migliore.
Ho le scarpette rotte, ma so che non c’è rispetto nello spiare. A volte guardo il vicino diritto negli occhi, con aria di sfida e sento la forza aumentare nelle gambe. Ma dura poco. Non  c’è rispetto nell’accettare la sfida, se a nessuno giova. Il guerriero combatte contro le intemperie, combatte per la costruzione, combatte contro le sue debolezze. Accetta la stanchezza come monito, ma non fa guerra a chi gli danza vicino, solo per sentirsi meno stanco. Ho creduto un tempo che potevo usare le braccia per appoggiarmi a chi danzava più convinto, poco importava se rallentavo il suo incedere. Oggi capisco, mio malgardo,  che rallentare a forza il passo di qualcuno non fa che  gettare le basi perchè qualcun altro, un giorno rallenti il tuo. E proprio quando danzerai più convinto, sorridente, non sbagliando una battuta, proprio allora inciampando per la superbia, non troverai più la spalla a cui sorreggerti, perchè al tempo, l’abbattesti tu.
Ho le scarpette rotte. E inciampo spesso ormai. Cuore e mente si sono lasciati confondere dal vociare intorno e hanno perso il tempo. Ma credo nei miei piedi, in questo tamburo su cui picchio, nelle montagne che mi respirano accanto, nel sentiero. E anche ora che sto distesa con l’orecchio poggiato alla terra per sentirne il battito, non perdo l’unica cosa per cui mi dico uomo: la mia dignità.