Quindici metri

Questo non è uno scritto su Bruno Ganz. Ieri è successa una cosa. Voglio dirlo in un modo facile perchè è una cosa molto complicata. Cerco di fare chiarezza nella mia mente circa le esatte condizioni in cui gli eventi sono accaduti. Avevo aperto tutte le finestre e facevo le pulizie mentre fuori c’era una temperatura gradevole e tra i palazzi potevo scorgere il cielo azzurro della tarda mattinata. Abitiamo all’ottavo piano di un palazzo che è proprio di fronte ad un altro ottavo piano. Così come il settimo, il sesto e tutti gli altri sono davanti ai corrispettivi. La distanza tra le due fila di finestre che corrono parallele ai lati della strada non è più di quindici metri. Cristiano stava uscendo per portare Brusco alla toeletta. Sul fuoco sobboliva il ragù. Potevo sentirlo brontolare sotto al coperchio perchè, stranamente, non avevo acceso la radio. Sentivo anche il ronzio del frigo. Avevo messo i cuscini a prendere aria sul davanzale poi mi ero girata verso il letto per sistemare le lenzuola. Non mi aveva sorpreso sentire il trillo del telefono un minuto dopo aver distrattamente salutato Cristiano, che aveva chiuso la porta alle sue spalle. Lo fa sempre: mi chiama appena scende anche solo per dirmi che c’è qualcuno parcheggiato male accanto alla mia macchina. Ho risposto al telefono con ancora con le spalle voltate alla finestra. La sua voce era rotta, terrorizzata, cruda. Mi diceva di non guardare fuori, di non scendere, di sedermi. “Un uomo si è buttato dalla finestra. È qui. In terra. In strada. C’è il sangue. C’è un rivolo di sangue rosso che va dalla sua testa lungo la strada. Ha il pigiama.” Sono caduta sulle ginocchia. Mi sono voltata. A quindici metri da me la finestra del palazzo di fronte, chiusa fino due minuti prima, era aperta. È un posto brutto. Questo mondo è un posto brutto. Ho urlato che era un posto brutto. In un posto brutto non ti puoi distrarre. Se solo avessi indugiato un minuto in più davanti al cielo azzurro, se non mi fossi voltata, io forse gli avrei potuto dire di non farlo. Non ho sentito nulla. Come ho potuto sentire il rumore del ragù dalla cucina e non sentire la disperazione così forte di quell’uomo? La finestra aperta, solo quella riuscivo a vedere. Volevo solo che Cristiano tornasse a casa, che si riprendesse pure il cane dalla toeletta, volevo solo che fossero lì vicini dove li potessi guardare senza distrarmi mai. Quanti anni aveva? Gli avevo chiesto quanti anni aveva, stupida io, che urlavo senza aver visto, invitando invece lui a guardare, non so perchè. Quaranta. Devo aver pensato che l’età mi avrebbe dato indizi sul perchè del gesto. In pochi secondi ho rivisto più volte la scena che era sfuggita al mio sguardo. Un uomo apre la finestra. Vede una donna che fa le pulizie in una casa così vicina alla sua, in una vita così lontana dalla sua, forse si accorge del cielo azzurro, salta nel vuoto e muore. Io ero più vicina a lui del suolo. Questa cosa, quel piccolo istante, quella lontananza così estrema tra noi, ha cambiato la nostra vita. Quando Cristiano ha aperto la porta aveva un viso diverso, come se non fosse più lui, come se io non fossi più io. Ci siamo seduti sul divano, con le finestre ancora aperte. C’era un silenzio irreale. Ci siamo tenuti le mani e, non so perchè, sono sicura che anche Cristiano in quel momento, ha guardato l’orologio. Poi solo una sirena, ma piano, quasi lontana come se fosse in un mondo diverso da questo. Più tardi nel pomeriggio siamo andati come ogni giorno al cantiere di quella che sarà la nostra casa. Uscendo ho visto l’uomo in terra, avvolto dalla coperta isotermica. Era come una scultura d’oro al centro delle nostre vite. Delle vite di chi passava per caso, dei signori della tabaccheria all’angolo, di chi voleva di fretta uscire con la macchina senza poterlo fare perchè la strada era stata delimitata dai nastri delle forze dell’ordine, del carabiniere che sorvegliava l’ingresso del palazzo. Ho guardato verso l’alto, la finestra ancora aperta. Non ho detto una cosa che normalmente non avrebbe importanza, ma ne ha. Avevo voluto sapere l’età dell’uomo, subito, come fosse l’informazione che avrebbe reso razionale quella cosa così difficile. Non mi serviva sapere se fosse italiano o no, lo sapevo già. Il palazzo avorio è abitato da cinesi. In quello celeste subito dopo la tabaccheria ci sono gli africani. Quello color corallo è abitato da indiani, pakistani e bengalesi. La finestra al settimo piano del palazzo color corallo stanotte è stata chiusa, ma la luce era accesa. A quaranta anni forse la disperazione riguarda la povertà, forse il lavoro, la solitudine o anche una perdita, una separazione. Non so. Ma per chi abita nel palazzo corallo, o celeste, o avorio, è più solitudine ancora, più povertà ancora, più perdita ancora. Soli più di quelli che sono da soli. Una scultura d’oro, sola come una cosa da cui stare lontano, importante e finalmente visibile a tutti. Invisibile fino a qualche ora prima tanto che la distanza tra me e lui, piccola, più piccola di quella tra lui e il suolo, gli deve essere sembrata incolmabile. Al cantiere me ne sono stata buona. Non ho sbraitato per avere il profilo led perfettamente allineato con la parete o gli spazi della cabina armadio equidistanti. Lo faccio, di solito. Vorrei che quel piccolo angolo di mondo, dove sono stata bambina un tempo, fosse un posto bello, e quindi voglio controllare che ogni cosa sia perfetta.
Ma è una bugia.
Questo è un posto brutto. Tutto questo posto, nel raggio di molti più di quindici metri, è un posto brutto. Ma quello che conta è che per qualcuno è ancora più brutto.
Oggi non sto bene, anche se sempre meglio di chi abita il palazzo corallo. La finestra è aperta, di nuovo. Mi trovo nell’equilibrio precario di chi non sa se sia meglio fuggire e mettersi in salvo o cercare di salvare tutti gli altri. Ma chi sa farlo poi? Ti distrai per un istante, ti volti e le tue spalle saranno girate per sempre.
Non possiamo restare umani, dovremmo diventare superumani. Che poi… “dovremmo”. Io chi siamo questi “noi” non l’ho capito ancora.
Però sarebbe stato bello se questo fosse stato un post su Bruno Ganz, su un uomo che ha interpretato, anche nei miei sogni, un angelo che sceglie di gettarsi nel vuoto per diventare umano e scoprire l’amore. Sarebbe stato bello.

Teoria delle chiavi nella borsa shopper e quel che ne consegue

L’assunto di base è che le borse shopper siano molto capienti e per questo molto comode, poichè possono contenere tutto l’occorrente allo svolgimento di una tipica giornata femminile. In una borsa shopper è consueto trovare: soldi gettati alla rinfusa; ombretti chiusi con lo scotch da pacchi; rossetti disciolti nel proprio stick per colpa del caldo; antizanzare; un libro di fisica quantistica; palline da ping pong; documenti di secondaria importanza come il passaporto e la patente; una calcolatrice con i tasti grandi;  almeno due telefoni di cui uno rotto; una virgorsol superstite;  gli occhiali da sole e quelli da vista; altri occhiali da sole, ma quelli belli di Jimmy Choo con la custodia; un paio di infradito; il quaderno degli appunti; la custodia aperta degli occhiali da sole Jimmy Choo che credevi di aver perduto; due pennette usb non formattate; le chiavi di casa attaccate allo stesso mazzo di altre tre chiavi di cui non è certa la provenienza; i cerotti; le carote; un peluche con apribottiglia integrato; le chiavi della macchina; un disco dei Kasabian; una maschera da unicorno.

Una delle grandi risorse della borse shopper è che , andando a fare la spesa, alla domanda : “Le serve una busta?” si può anche rispondere “No, tanto ho la shopper”.  Così trova spazio nella shopper anche un cavolo cappuccio, una bottiglia piccola di aceto di mele, il Nescafè  Red Cup e una confezione di petti di pollo.

Secondo la teoria delle chiavi di casa , dopo il supermercato, arrivati davanti al portone di casa, con un rapido gestodella mano, infilata sotto il cavolo cappuccio, scansando la virgosol e la patente, si affererà immediatamente un mazzo di chiavi che, portato alla vista risultarà essere il mazzo di chiavi della macchina. A quel punto, facendo ricadere nella shopper le chiavi della macchina,  ci si stupirà del fatto che non si è riusciti a trovare subito le chiavi di casa e si dirà “Eppure le avevo messe qui”. Non sarà difficile intrufolarsi nuovamente e inciampare nelle palline da golf. Capita. Per questo diventa importante bloccarle entrambe con una mano e aiutarsi con l’altra fermando i manici della shopper con quel gesto che solo l’esperienza rende automatico: l’unione “clic-clac” spalla-guancia, di cui neanche Don Lurio riuscì a spiegare l’importanza. Una volta fermate le palline il resto è una passeggiata. Così, facendosi strada tra il passaporto e gli occhiali, stando attenti anon aprire l’ombretto, si pescheranno… di nuovo le chiavi della macchina. Eh sì, è probabile. La situazione infatti potrebbe essersi complicata per l’accidentale rottura di una sigaretta che, sul pavimento della shopper, fa attrito e non lascia scivolare gli oggetti come dovrebbero. Fortunatamente si ha ancora la presa dentale libera che sarà utile per la defilata dalla shopper almeno della busta col cavolo cappuccio. Mentre la bottiglia di aceto di mele la si potrà reggere tra le ginocchia.

Ora, la teoria delle chiavi nella borsa, dopo almeno altre pescaggi delle chiavi della macchina, nella ricerca delle chiavi dicasa, vuole che qualcuno dei condomini apra casualmente il portone ad un certo punto della ricerca fallimentare e e che proprio in quel momento, sollevando la testa per dire grazie, i manici della shopper scivolino dalla presa facendo cadere in terra le chiavi di casa appunto. Importante far sì che nel recupero furtivo non si richiuda il portone, altrimenti si torna al punto di partenza.

Entrando finalmente in casa si potrà rimettere le chiavi di casa nella borsa dicendo a se stesse “Per fortuna ho una shopper così ce le posso facilmente buttare dentro senza doverle appoggiare all’ingresso di casa”. E’ lì che la persona che aveva voglia di petti di pollo per pranzo ma  che nel frattempo è già al caffè ti dice: “Mi dai le chiavi della macchina che devo andare a prendere una cosa urgente nel cassettino”. Con un sorriso spavaldo, annuendo come per dire “Ce le ho proprio qui”, al primo rapido controllo si pescheranno comodamente le chiavi di casa.

E sarà inutile ritentare. Perchè questa è la teoria delle chiavi nella borsa che dice che “quando ti servono le chiavi di casa troverai sempre quelle della macchina e quando avrai bisogno di quelle della macchina troverai subito quelle di casa”.

Fatevene una ragione come ho fatto io.

Respirate.

Non chiedetevi perchè accade ma partite dalle conseguenze.

Si perde un sacco di tempo alla ricerca di qualcosa di semplice e fondamentale in una vita complicata. La gente dice “elimina qualcosa dalla tua vita come fosse la tua borsa”, ma quella gente non sa che se hai una borsa così è perchè non riesci a fare diversamente. E’ per questo che ti sei comprata una shopper: per vivere pericolosamente. Altrimenti avresti comprato una pochette, ti saresti messa un paio di tacchi alti, anzi, “scarpe da cena” come dice Sonia,  qualcuno ti sarebbe venuto a prendere e le chiavi della macchina non ti sarebbero proprio servite.

Ah, lo stress causato dalle voci continue che ti invitano a non essere stressata! Che meraviglia.

Da una shopper piena, non ne esci così, con uno schiocco delle dita.

Mi mancano gli amici, la birra, le risate e mi manco anche io. Moltissimo. Ma ho dovuto accettare questo momento della mia vita, in cui sono ferma, in una posizione da contorsionista, davanti alla porta di una casa che forse è solo un miraggio, impegnata nella ricerca delle chiavi.

Non ci abita nessuno in quel palazzo e chi ci abita sta cercando le chiavi insieme a me, quindi nessuno ci aprirà per caso.

Sono una perfetta scema della vita, secondo la classificazione di Massimiliano Parente, e per questo le metafore di solito mi vengono benino, ma la cosa triste, ancora più triste delle metafore degli scemi della vita, è che questa non è una metafora. Sto davvero tentando di aprire le porte di una casa. E nel frattempo non sto vivendo.

Se non è una cosa scema questa!

Ma la teoria delle chiavi di casa mi ha aiutato a pensare che se mi siedo, e smetto di affannarmi, prima o poi passerà qualcuno che mi chiederà di spostare la macchina, così io, distrattamente, pensando ad altro, cercherò le chiavi della macchina pescando infine quelle di casa.

Questa sì, è una metafora, ma mi concedo il lusso di dire che funziona.

Ora devo solo ricordarmi come ci si siede.

Forse  mi può aiutare la maschera da unicorno.

In a Zimmerman Mood

Sono nel mio momento Dylan, decisamente. Ed è molto difficile essere nel momento Dylan, per come la intendo io. Significa che lo penso spesso e che mi faccio molte domande a proposito di cosa deve aver pensato lui in questa o in quella situazione. Magari sto riflettendo su un concetto o sto prendendo una decisione, processi che per me durano diversi giorni, a volte settimane, e mi sbuca dal nulla la sua faccia. Mi è successo nel tempo anche con altri. Un po’ come accadeva a Rob in Alta Fedeltà, con Bruce Springsteen. Solo che nessun di questi che ogni tanto penso ha mai risposte o messaggi per me, come invece Bruce ne aveva per Rob. Senza motivo, semplicemente mi metto a pensare a loro . Ricordo di quando per esempio mi ero fissata con quella domanda a proposito di “Chissà come ci si sente a essere Iman e a ritrovarsi nel letto, la mattina, David Bowie”. Poi David Bowie è morto. Poco dopo eh, tipo due settimane, quindi forse è meglio che smetta di pensare chiunque. Comunque Iman avrebbe ribattuto che lei nel letto non si ritrovava David Bowie ma David Robert Jones e bla, bla, bla.

Stavo dicendo: è difficile essere nel momento Dylan perché neanche Dylan, io temo, abbia mai capito bene cosa voglia dire. Non sono una grande appassionata della sua biografia, a parte le cose che tutti sanno, o almeno che quelli che fanno il mio lavoro sanno, come : che c’entra Woody Guthrie, chi è il Thin Man della ballata e le citazioni tipo ” I don’t believe you, you’re a liar”. Non conosco a fondo la sua intera produzione, inclusi i bootleg, ma Il mio disco preferito, dei suoi,  è Blood on The Tracks. Mi dispiaccio sempre molto per Joan Baez e il documentario girato nel tour inglese del 1965 in cui la tratta come Harry avrebbe trattato Sally se non si fossero mai messi insieme, me lo rende detestabile. Anche se ho sempre pensato che Harry e Sally insieme in realtà fossero una coppia terribile e che Nora Ephron lo sapesse ma che ci abbia volutamente ingannati per vedere se ci saremmo cascati. Ci siamo cascati tutti e quindi , in fondo,  aveva ragione Dylan e Joan Baez s’è salvata la vita. Mi fa molto ridere l’episodio di Urban Myths in cui si racconta la leggenda della sua visita a Dave Stewart che finì nella visita a un Dave qualunque. Dal 2007 mi commuovo sempre quando ascolto I Want You perchè mi viene in mente Heath Ledger. If You See Her, Say Hello è la canzone d’amore più bella della storia del mondo e anche di altri mondi, probabilmente. Questo è quanto a proposito di quel che so di Dylan. Però qualcosa della sua enigmatica espressione mi si deve essere attorcigliato da qualche parte nel lobo frontale, e, quando meno me l’aspetto, allenta le sue spire e fa capolino.  Ieri ero sul terrazzo a prendere il sole su una delle sdraio che il proprietario della nuova casa ci ha lasciato a disposizione. Il terrazzo è condominiale ma l’ha arredato lui. Gli altri condomini, forse gelosi del fatto che fosse toccata proprio a noi quella casa, sfitta per lungo tempo,  con l’affaccio sul terrazzo condominiale, hanno iniziato a pisciare sul territorio come i cani, già dal mese di febbraio. Gente che abita al terzo piano e s’è impegnata l’oro di famiglia per comprare il terriccio per i vasi su all’ottavo piano, ricordandosi improvvisamente dopo forse trent’anni di quello spazio che tanto somiglia al terrazzo de Le Fate Ignoranti. Peccato che in casa nostra di ignorante non ci sia neanche il cane, e anche lui sia poco socievole coi paesani. In questi giorni li vedo farsi gli spaghetti aglio e olio al secondo piano e portarseli fumanti su per sei piani per mangiarseli, già incollati, su quello che praticamente è il balcone di casa mia, sudando più per il sali-scendi che per i trentacinque gradi. Del resto disturbare il prossimo è un obiettivo impegnativo, ci vuole costanza e sacrificio. Rimandando la scrittura  del trattato sulla frustrazione del farsi i vasi con le fragole al Tuscolano, sperando di dimenticare il cemento e la puzza di topo morto, ho pensato che potevo anche sedermici io, per una volta,  sull’affollatissimo balcone di casa mia. Ero in una posizione che conciliava la presa di coscienza: salda dai gomiti ai polsi sui braccioli, con i piedi ben piantati a terra , la schiena accomodata fino al collo e la testa appoggiata sul cuscino. Dopo anni di posizioni precarie del tipo: “Sono solo di passaggio, anzi, fammi andare che ho da fare” credo di aver per un istante indugiato, trovandomi immobile sotto il sole, a frenare le fantasie degli occhi socchiusi prima di aprirli un secondo e visualizzare la domanda del qui e ora, quella che mi ha fatto pensare a Dylan per l’appunto. Me lo sono rivisto nella scena finale del penultimo episodio del David Letterman Show. Già dalla prima visione, lì in diretta, di quel momento così storico per la tv e per un uomo di tv, qualcosa mi aveva disturbato. Non solo me ovviamente, visto che anche David Letterman pareva imbarazzato per l’apparente totale disinteresse di Dylan nei confronti di quello che stava succedendo intorno a lui. In quell’immagine di silenzio e goffe posizioni, m’è apparso finalmente il fumetto con le parole scritte dentro, e le parole erano «Ma che cazzo ci faccio qui?». Ho avuto un sussulto e mi sono detta che poi avrei fatto la prova su Google cercando quante più immagini di Dylan e abbinandole al fumetto in questione, ma ero già certa della bontà di questa intuizione. Il mio momento Dylan è quello di un “Ma che cazzo ci faccio qui?” finalmente convinto, fermo, con la giostra che non gira mentre mi pongo la domanda. Ricordo di essermi chiesta questa cosa più volte negli anni: quando avevo sedici anni, seduta al banco di scuola durante la lezione di Eneide, all’ultima ora del sabato; quando ne avevo venti sul letto della mia camera, aspettando una telefonata che non arrivava mai; a venticinque servendo ai tavoli del pub; a trenta nei lunghi pomeriggi in consolle al Mecs Village, indovinando canzoni per chi passava sulla battigia e poi negli inverni freddi quando diventavano consolle di locali pieni di fumo di sigarette. Ho sempre avuto una risposta, tutte quelle volte. Che ci faccio qui?

Studio per diplomarmi così poi potrò andare all’Università, anche se quel che conta è che domani non ci sia scuola.

Aspetto che mi chiami, così potremo uscire, anche se non so se alla fine gli hanno dato la licenza o se è rimasto a Torino perchè l’hanno messo di corvè.

Porto questo al tavolo 32, così poi posso andare a vedere se è pronta la comanda per il 46, e visto che è l’ultimo tavolo, tra mezz’ora me ne vado a fare colazione con gli altri.

Ora gli metto questa, perchè avrà più o meno quarant’anni e nel 93 avrà di certo comprato questo disco quando era al liceo. 

Non riuscirò mai ad andare davvero a tempo ma punterò sulla selezione. E poi questa piace al banco, così i ragazzi si ricordano che sono qui e mi mandano da bere. 

Risposte del qui e ora che danno un senso, incompiuto e provvisorio forse, di quel che sto facendo. Ecco cosa mi manca da dieci anni a questa parte. Il fatto è che a un certo punto i progetti e speranze e pensieri e avventure devono essere diventati troppi, si sono mischiati e non ci ho capito più niente. Come in uno di quei film dove a un certo punto ti fanno sbirciare un epilogo di vent’anni dopo, prima di raccontarti come ci si sia arrivati.

Ma che cazzo ci faccio qui?

Vuoto totale e frasi sconnesse farfugliate anche ad alta voce che non possono essere una risposta, perchè sono solo inviti a nuove domande.

Sono qui perchè stiamo ricostruendo casa daccapo. Sì il Big ranch. Da tre anni ormai.

Conduco show di televendite e so cosa è l’acido ialuronico a diversi pesi molecolari.

So anche cosa è la Trap.

Papà è morto. Oddio, pare impossibile che sia morto proprio lui.

Ho avuto un’azienda e l’ho chiusa.

Ah no, quello è successo prima. Prima della Trap dico.

Farò i bagni in resina cementizia.

Ecco. D’un tratto l’espressione di quello che ormai chiamerò The Zimmerman Mood deve essere comparsa sul mio viso. Non c’era nessuno a confermarmela ma non c’ero nemmeno io , perchè per una volta non mi guardavo da fuori, come fossi una spettatrice di passaggio, troppo indaffarata per avere opinioni. No , no, ero proprio io, da dentro, perduta e sconnessa, come probabilmente un Dylan qualunque a cui hanno chiesto, in un qualunque momento della sua vita, dal Greenwich Village in poi, «Chi sei e che ci fai qui?». Chissà se questo giustifica il mio esser diventata, agli occhi di chi mi conosce da tempo, così sfuggente, fredda e cinica. Cioè stronza. No, infatti, non mi giustifica, anche perchè nessuno cambia mai, tutti sono come sono da sempre. Ecco, di questo, per esempio, me ne farò in fretta una ragione.

Fatto.

Ho preso il sole ancora quindici minuti e sono rientrata a preparare il riso alla cantonese. Però mentre la frittatina tagliata si freddava accanto ai cubetti di prosciutto cotto, perchè è importante freddare tutto a parte prima di mischiare, ho cercato su Google tutte le foto di Dylan che potevo trovare, e con una App ho messo il fumetto parlante “Ma che cazzo ci faccio qui?” a tutte le immagini. Perfetto. Calzante. Illuminante. 

Che dici, Joan Baez, possiamo perdonarlo ora che sappiamo del suo smarrimento?

No.

Ah sì, in tutto questo, “a parte” è ancora fondamentale per me.

 

Quella cosa lì che si fa con il latte.

Una volta per tutte: sì, esistono fobie alimentari. Sì,  alcuni di noi ne soffrono dalla nascita. No, non possiamo spiegarle in un modo comprensibile a voi che non ne soffrite. Vessati da continue domande, sottomessi alle frasi spesso minatorie dei padroni di casa cucinieri, derisi dagli amici commensali e terrorizzati dagli sputi nel piatto che chissà quante volte abbiamo ricevuto come risposta al nostro divieto d’improvvisazione allo chef, abbiamo imparato a formulare frasi che pongano fine ad ogni discussione e insensata tortura. Sono allergica e potrei morire. Ho una rara malattia. La mia religione non me lo consente. Preferisco digiunare. Ho un chip nel cervello che a contatto con l’enzima attivato da quella sostanza mi fa esplodere. E ogni volta non vediamo l’ora di tornare a casa da mamma. Perchè lei sola sa. Persino la nonna insiste da quando siamo piccoli e si rifiuta di capire. E’ tempo che qualcuno te lo dica, e lo farò io, con parole semplici e povere. Io non mangio formaggio, non posso stargli vicino, non lo tocco e preferisco non vederlo, quindi se tu ne mangi preferisco sederti lontano, perchè potresti contaminarmi. Pensa che non mangio nemmeno la maionese perchè gli somiglia. E quando me lo nascondi appositamente e io ne mangio per sbaglio, mi fai il torto peggiore che si possa fare a una persona. Vuoi sapere perchè? Ottimo, eccoti la risposta. Per me è cacca. Ma se pensi che questa sia una frase da bambina capricciosa, sappi che non uso questo termine come quando a tre anni ti fanno “le ttottò” sulle mani. No, è proprio cacca. Ma non quella carina di Arale. La mangeresti tu? E perchè no? Sei allergico? Ma se non hai mai provato come fai a dirlo, scusa? Nessuno è morto per questo, no? Forza, assaggia e se non ti piace poi puoi sputare. Vedi, per noi è così. Non ti piace come paragone, me ne rendo conto, ma credimi se ti dico che, almeno nel mio caso, ricordo benissimo i pianti per la sola vicinanza di “quella cosa che si fa con il latte” e che faccio fatica persino a nominare, a meno di tre anni di età. Sei sconvolto, lo so, perchè nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di dirtelo, ma era tempo che qualcuno lo mettesse nero su bianco, così chi si trova nella mia condizione da sempre, ha finalmente modo di inviarti questo link e metterti a tacere. Un po’ come nel circolo della fiducia, ora sappiamo di essere in molti, e tutti abbiamo lo stesso perenne problema.  Che siano banane, pomodori, spaghetti, insalata, semi per  pappagalli o cocce di pomodoro noi non le mangiamo e facciamo fatica a sopportarne l’esistenza. Così se alcuni turofobici come me sopportano la mozzarella sulla pizza, lo fanno solo ed esclusivamente perchè a un certo punto non ce l’hanno fatta più e hanno ceduto pur di non dover inventare una nuova malattia mortale,  tentando di non immaginarsi nell’atto di mordere la cosa peggiore che si possa pensare. Io no, per me sei tu che sei matto a mangiare una cosa non commestibile. Così se mi chiedi cosa farei se stessi morendo di fame e intorno a me ci fosse solo “quella cosa lì che si fa col latte”, io ti risponderò “E tu, cosa faresti se stessi morendo di fame e intorno a te ci fosse solo “quella cosa lì che…?”… insomma hai capito. Non ho altro da aggiungere. Ah, e non ho nessuna intenzione d’ora in avanti di inventare altre fantasiose spiegazioni, perchè la verità è bellezza. Quando mi invitate a cena dico di no per questo motivo, così almeno voi potete mangiare la lasagna senza che la spiegazione che fornirò rifiutandola  vi ferisca troppo. Buon appetito a tutti.

 

 

Novantadue minuti di applausi (dichiarazione d’amore, recensione semiseria e invettiva annessa)

Questo non è un donut.

Si può avere ripieno di marmellata, al cocco, alla cannella. Ma non è un donut. E’ un simbolo e fa parte di un codice. Non è un donut quindi , ma è un percorso circolare. Se la mia vita, o la tua, o quella di David, il protagonista di questa storia, fosse un inconsapevole percorso circolare, prima o poi egli si ritroverebbe in un punto del donut su cui già è passato. Se il donut potesse essere visto in un contesto multidimensionale, e immaginare l’insieme di tutti i detsini possibili di quel donut, come nel tesseratto di Interstellar, David, l’omino che cammina sul donut, potrebbe continuare a camminare all’infinito, senza accorgersi ad esempio che qualcuno ha mangiato il donut, perché nel passaggio da una dimensione all’altra, il donut mangiato non c’è più ma continua a essere sempre lo stesso donut. In un certo senso quindi il donut vive sebbene sia morto. Esattamente come Laura Palmer. E questo non è uno spoiler. E’ impossibile spoilerare Twin Peaks, poiché si può spoilerare solo un’interpretazione di Twin Peaks. Twin Peaks è come la realtà: si può raccontare solo la percezione di essa, non la realtà. Vi è mai capitato di avere una seconda possibilità? Io credo che a tutti accada prima o poi, ma non sempre è facile accorgersi di essere di nuovo lì, pronti a chiarire finalmente una situazione che in passato era rimasta fumosa.  Esattamente venticinque anni fa David aveva cercato invano di convincere una platea ostile. Fuoco Cammina Con Me veniva appreso come un prequel alla serie tv più discussa dei due anni precedenti. Pubblico, produttori, critica e produzione erano stati per mesi ossessionati dall’unica domanda inutile di Twin Peaks: “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. Avevano talmente insistito che alla fine, stremato,  David gliel’aveva detto, tanto era davvero poco importante rispetto a tutto il resto. Tutti,  una volta avuta la risposta, gli avevano voltato le spalle e avevano ignorato  quello che invece era davvero importante: il codice. Twin Peaks era un codice, lo è ancora adesso, ma ora non si può più gridarlo ai quattro venti perchè qualcosa evidentemente è cambiato. Lo dice chiaramente il Gigante al Buon Dale, proprio in apertura del primo episodio della terza stagione :”Le cose non possono essere dette ad alta voce ora”. Al tempo invece, sarebbe bastato prestare attenzione, per capire che era tutto chiarissimo, lì, spiattellato in prima serata nelle case di tutto il mondo. Non chiedetemi ora cosa nel dettaglio, perchè è una storia troppo lunga. Fuoco Cammina Con Me non era un vero prequel, perchè non c’è sequel o prequel in una narrazione in cui tutto accade contemporaneamente, ma questa cosa non la si poteva capire se non si era capito che non era importante chi avesse ucciso Laura Palmer. Forse la domanda più corretta sarebbe stata “Chi ha ucciso Marylin?”, ma anche questa è un’altra storia.

Venticinque anni dopo David torna a Cannes ancora con la storia degli abitanti di Twin Peaks. Lo stesso Twin Peaks che aveva preso i fischi. Quella stessa serie di cui era stata chiesta a gran voce la cancellazione. Quello stesso mistero che una volta svelato non interessava più a nessuno. In ventisei anni chiunque abbia tentato di usare al meglio il linguaggio cinematografico ha saccheggiato Twin Peaks per personaggi, atmosfere, ambientazione, temi, e ha avuto successo. Twin Peaks è un cult. Un nostalgico “si stava meglio quando si stava peggio”. «Sì, dài, Dave, per favore , torna a Twin Peaks. Bene! Bravo! Bis! » . Cinque minuti di standing ovation, lacrime e felicità delirante. Eppure, dopo tutti questi anni c’è ancora chi si chiede: «Ma cosa diavolo è successo a Laura Palmer?». Sarebbe bastata la risposta della signora Ceppo «La storia di Laura è la storia di tutti noi» per mettere a tacere due generazioni di spettatori. Io mi sarei arresa da tempo fossi stato David. Invece lui no, lui ha atteso pazientemente che il cadavere passasse sul fiume. Io lo ammiro moltissimo. Lo ammiro per molte cose ovviamente e lo amo dal profondo del mio cuore, ma non l’ho mai amato tanto come per questa sottile, ironica, velata vendetta.

La terza stagione di Twin Peaks è perfetta. Ed è un atto restitutivo meraviglioso, perchè se tutto è cambiato nel corso di questi ventisei lunghi anni, la sua testardaggine è esplicita nel continuare a dire la stessa cosa in un modo diverso, adeguato ai tempi. Nel 1990 puntava dritto il dito contro il male, nascosto tra le righe della vita al sole. Ragazzi a scuola, gonne sotto il ginocchio, la festa della cittadina, gli intrighi per il potere, la vita in famiglia, torte di cieliegie e caffè dannatamente buono. E un segreto terribile e fondamentale più importante della vita stessa: “We live inside a dream”. Nel 2017 il male è la vita. Guardatevi intorno e ditemi se la profezia non s’è avverata. La storia di Laura è ancora la storia di tutti noi, e siamo tutti nella Loggia Nera. Non c’è stato mai un momento così buio. Guerre, stragi, sangue e morte, sì, ma non parlo di questo. Parlo del male e dell’odio che esiste tra due persone qualunque che non si conoscono e già solo per il fatto di non conoscersi si odiano. Due passanti che si urtano. Un naufrago e il suo ospitante. Due persone vere celate dietro due foto su un social network.  Come cani che abbaiano dietro le sbarre di una prigione, ricordando Bobby e Mike contro James. Homo homini  lupus. Ed è questo tempo qui l’ambientazione della terza stagione di Twin Peaks. La musica non c’è. Non siamo più in un posto solo, e se guardate bene l’ultima scena, sbirciando Jacque Renault che serve da bere al Bang Bang Bar (sì è proprio lui e sì questo è l’unico vero spoiler) , in uno sprazzo di felicità, cercata a fatica nel marcio, tutti sono ovunque. Siamo tutti qui. Morti, vivi, persi, siamo tutti in questo tempo buio, dove tutti i tempi si mischiano. Dove ogni tanto appare un vecchio telefono a tasti a ricordarci che se se ogni tempo è in questo tempo, allora, ciascuna immagine scelta per comunicare un messaggio in sogno, come un nano danzante, contiene già la sua evoluzione, che altro non è che elettricità pura. Un po’ lo immagino ridere sotto i baffi, David. Ah, adesso vi piace. Ah, adesso del delitto pare non vi importi nulla. C’è tanta presunzione, come è giusto che sia, in questa nuova stagione di Twin Peaks. E’ il suo talento lo schiaffo. Ma senza dirlo. Sottolineando invece l’unico altro talento che egli chiama a testimonianza: Stanley. Kubrick è ovunque. Nell’occhio della scatola di vetro che ricorda HAL 9000. Nei corridoi del luogo del delitto, uguali a quelli dell’Overlook. Come al tempo era nelle scarpe di Audrey/Lolita. Non dirà nulla di nuovo, ma lo dirà in modo diverso.

Solo, Gordon, stavolta lo dirà a voce bassa, ‘ché il male urla già da sé. Certo, conservo in cuor mio la speranza di un finale ottimista. Una luce che ci consoli. Ma temo sia solo una speranza.

Bentornato Gardon. Mi sei mancato.

13 Reasons why i didn’t like 13 Reasons Why. Ovvero i miei 13 motivi.

Il primo motivo è che sono in un periodo “no” della mia vita. Non so bene di quale vita, delle tante che ho vissuto fino ad ora, ma sono certa che sia un “no”. Sono la Barbara peggiore che ci sia mai stata fino a questo momento. Mai così cinica, mai così arrabbiata, mai così lucida, severa, e soprattutto mai così antipatica. Mi sto talmente antipatica in queste settimane che mi sta venendo voglia di diventare amica di me stessa. E qui arriviamo al secondo motivo, legato al tema e non alla serie in sé: a tutti capita prima o poi di farsi pena da soli. Io non conosco nessuno che non si sia crogiolato nel ruolo della povera vittima indifesa almeno per una volta, ma quel trucchetto dei “passivo-aggressivi” è anche tempo che venga smascherato, dopo esser sopravvissuti allo sdoganamento dell’adolescenza come ricatto morale, no? Nel mio, a lungo cercato e faticosamente raggiunto, “periodo no” mi sono data una sola regola: prima l’onestà intellettuale poi l’empatia. Obiettivo: un’ empatica onestà. Quindi Hannah Baker non mi fa pena perchè per troppo tempo ho puntato tutto sulla mia capacità di far pena a me stessa e, sebbene in qualche occasione sia stata anche credibile, il siparietto lo conosco bene e la verità è che è solo un altro modo di dar sfogo alla propria vanità. Smettiamola di farci pena da soli,’ché tanto agli altri, giustamente, davvero non gliene frega niente. Punto. Se nel 2017 all’ highschool della provincia americana va così, nel 1992 al liceo di provincia romana, andava allo stesso modo. Non lo chiamavano bullismo e nemmeno me lo ricordo come lo chiamavamo, ma credo che fosse sufficiente dire che eravamo degli stronzi. Visto però che siamo in aria di progresso e che ci siamo evoluti al punto di dare una parola alle sventure quotidiane dell’adolescenza, è anche arrivato il momento di fare un ulteriore saltino in avanti e capire che è poi Hannah Baker a vincere la coppa dei campioni di bullismo. E questa è la terza ragione per cui le fondamenta psicologiche della serie traballano: non la definirei mai, come ho scioccamente sentito fare, diseducativa, dico solo che urlando ai quattro venti la pericolosità del bullismo, ne diventa portavoce mediatico e addirittura invito, quindi più che diseducativa è contraddittoria. Ah la vanità nel credere di sapere cosa “educa” ad una sana vita in società e cosa no, quando la vita in società non può in alcun modo essere sana, perchè non consente la liberazione individuale dell’energia data dalle pulsioni più basse! Finito, ora divento buona. Il quarto motivo per cui non poteva assolutamente piacermi è che ho visto troppe serie tv per farmi fregare così. Suvvia, non siamo ragazzini che scoprono Lost nel 2016, noi nerd dei tempi non sospetti. La cassettina gne-gne, con le cuffiette della Philips, il numero 13 per stare due passi avanti a Undici di Stranger Things, la bici di Elliott a E.T, il recupero di Donnie Darko, che già aveva a sua volta provato il recupero degli anni ’80… Santa Madonna Luisa Veronica Ciccone, che palle! Allora, tanto per essere chiari: se per ogni volta che avessi dovuto riavvolgere una cassetta con la matita pur di non sprecare le batterie, avessi avuto un lettore mp3, col tastino rewind e ffw, avrei detto subito: “sì, grazie, datemelo e ripigliatevi ‘sta monnezza.” La bici ce l’ho pure adesso, anzi è meglio perchè da Decathlon costa 200 euro il super-modello maxi-sprint. La comitiva del tipo “chi ha mai più avuto gli amici di quando aveva 12 anni?” è un’opinione perchè io non ho mai più avuto quelli che avevo a 30. Basta con questa atmosfera, fotografia, ambientazione anni ’80. E se anche non bastasse: basta con la mercificazione degli anni ’80 rivolta alle generazioni che si stanno immaginando una cosa diversa da quella che era. Noi nati nei primi anni ’70 siamo stati molto nostalgici, abbiamo pianto perchè proprio quando avremmo dovuto iniziare a contare qualcosa, ci hanno tolto tutti i soldi, i sogni, il pane di bocca e, ancora piangendo, abbiamo iniziato a morire di fame. Poi a un certo punto qualcuno deve aver capito che era inutile recriminare contro quelli più vecchi di noi, e ha scoperto che per iniziare a guadagnare qualche spicciolo dovevamo vendere la nostra nostalgia dei tempi andati a chi non potesse controbattere perchè non li aveva vissuti quei tempi. Che infatti sono andati. Questo è bullismo! Quindi se il quarto motivo è la banalità, il quinto è l’astuzia disonesta.
Sesto e settimo motivo sono legati a una cosa fondamentale nelle serie tv: i dialoghi sono terribili e i personaggi non hanno spessore. Una citazione su tutte: «Non sei tu, Casco, sono io. Sono io che non ti merito.» Lo sciopero degli sceneggiatori a Hollywood nel 2007 ha fatto danni incommensurabili. E’ da allora infatti che, quella che doveva essere una situazione d’emergenza, in cui dilettanti allo sbaraglio si improvvisarono sceneggiatori, si è trasformata in una consuetudine. Durante lo sciopero degli sceneggiatori, How I Met Your Mother si fermò. E se lo sciopero fosse durato per sempre non sarebbe più ripartito. Questa è onestà, bellezza, purezza. I dialoghi di How I Met Your Mother insegnano agli angeli a sorridere. E ai dilettanti che scrivere è un’altra cosa.
L’ottavo motivo per cui 13 Reasons Why non mi è piaciuto è che a un certo punto inizierai a pensare: «Forse si riprende». E invece no. Non sapevano come farlo finire. Questa è la prima cosa che penserai. Quando invece la cosa evidente è che s’è imposta la necessità di creare aspettative per un seguito. Quanti motivi mi mancano? Ecco, cinque.
Non sto affatto menando il can per l’aia pur di rubare tempo, sto solo dimostrando, con una lista di 13 motivi in un post solo, che tredici ore di serie tv sono lunghe come la merda. A meno che tu non sia JJ Abrams, oppure non utilizzi alla grande la linea narrativa verticale. Come in The Big Bang Theory. La lunghezza ingiustificata, era il nono motivo, comunque.
Il decimo è per forza legato a Twin Peaks ma questo, ormai, lo sanno tutti. Dopo Twin Peaks nulla è stato lo stesso. Portare il simbolismo in tv, in prima serata, in Italia addirittura come alternativa alle partite del mercoledì sera, invitando alla visione quelle stesse famiglie che in apparenza potevano essere la famiglia Palmer, fu geniale, folle, ironico ovviamente. Poco importava se molti non avrebbero capito, se il tormentone “Chi ha ucciso Laura Palmer?” sarebbe diventato più importante del vero significato della serie, lui, David, l’aveva fatto. Chi nel tempo si sarebbe occupato ancora di quell’arte un po’ oscura che è il cinema l’avrebbe capito, avrebbe imparato. Avrebbero tutti reagito in futuro al consueto taglio della programmazione per motivi di audience, ispirandosi al suo colpo da maestro: tornare solo per un’inarrivabile conclusione di stagione, che fosse uno sberleffo, uno schiaffo morale. «Non l’avete voluta la terza stagione? E ora beccatevi ‘sti ventisette anni di dubbi.» E invece no, è andata nel peggiore dei modi possibili, perchè le atmosfere cupe, i dettagli distribuiti ad arte, i colori, le frasi-rebus diventate tormentone, erano solo la coperta che, essendo ovviamente troppo corta, faceva intendere che ci fosse altro a cui prestare attenzione. Così invece di concentrarsi fosse anche solo, che ne so, sulla tecnica di far capire una cosa, mostrandone un’altra, hanno preferito ripetere a pappagallo quelle suggestione per far sentire intelligenti gli spettatori che le avessero riconosciute. Si sono svenduti la coperta di Twin Peaks, ma noi no, non ci avranno mai.
L’undicesimo motivo è un fraintendimento generazionale. A quindici anni dicevo, come tutti i quindicenni, che gli adulti avevano dimenticato come è sentirsi a quindici anni. Eccomi qui, ne ho quarantatré, e non solo non l’ho dimenticato, ma voglio credere di essere migliore dei quindicenni del 2017, come in effetti i miei professori erano migliori di me. Così quando ero ragazza io, noi eravamo quelli che dovevano imparare la vita da chi l’aveva iniziata a vivere da più tempo di noi e ora che gli adulti, dal latino, “adolesco” mi “sono già nutrito”, contro l’adolescente che si “sta ancora nutrendo”siamo noi, veniamo dipinti come dementi che non distinguono una storia di stupro da una di cazzeggio. Paranoici, ossessivi, superficiali per di più. Insomma, sono io che sto sempre dalla parte sbagliata, o forse è tempo che si torni parlare di Brenda e Brendon come di quelli che poveretti, devono ancora mangiare qualche chilo di sale?
Il dodicesimo motivo è la scena in cui Hannah si taglia le vene. Non l’ho vista. Un istante prima mi sono coperta gli occhi perchè ero sicura del fatto che l’avrebbero mostrata cruda come è cruda una scena di vene tagliate. Così poi se ne parla, no? Becero.
Infine 13 Reasons Why è una brutta serie tv, perchè nessuna serie tv davvero bella ha bisogno di un hashtag tanto di moda quanto #13reasonswhy. E mi rode un po’ del fatto che l’uso di questo hashtag renderà questa mia recensione, nemmeno scritta tanto bene, più popolare del mio post precedente, in cui ho messo un racconto breve scritto un anno fa, che trovo molto più bello di questi tredici, sporchi, tuttavia ragionevoli, motivi per dire che, no, 13 Reasons Why tutta questa attenzione, inclusa la mia, non la merita.

St. Patrick

Io non so perché andai da lui. Il mio cuore, solo lui lo sapeva. Un rifugio così nascosto alla vista mia, delle mie mani, delle gambe che mi ci portavano, dei miei pensieri. Quale cuore, poi? Sono troppo grande per un cuore. «Perché è solo inganno. Chimica.», disse la mia pelle. Forse il cambio di stagione. Ma ci andai. Di nascosto da tutta me stessa, perché camminando pensai ad altro: al lavoro, al tradimento di una speranza, alla tristezza che mi aveva sopraffatto e che non avevo voluto ammettere. Una delusione da niente, se non l’ennesima sommata alle altre, in fondo. Ma, quella delusione, possibile che bruciasse così tanto da richiedere la ritirata? Come perdere l’equilibrio dopo una spinta e sentirsi sconfitti per quello, dopo giorni di combattimento a mani nude. Ci andai, insomma. E lui fu lì a guardarmi con quell’espressione benevola, quella di sempre, che non chiede mai «Dove sei stata?». Ho contato gli anni e i mesi e i giorni d’amicizia mentre andavo lì. Dove siamo stati, amico mio? Sempre qui, sempre l’uno accanto all’altro sebbene divisi, come due che si salutano con la mano da lontano e mentre lo fanno incedono con lo stesso ritmo in direzioni diverse, senza mai staccarsi gli occhi di dosso. Poi una volta distolto lo sguardo, eccoli, eccoci, di nuovo frettolosi nel tempo ciascuno di sé ad aggrovigliare progetti e speranze e cose da fare e soluzioni da trovare. Un passo in più per ogni giorno e un nuovo strappo da ricucire e la strada da fare e ancora costruire e salvare, senza sosta, lontani e diversi, come sconosciuti che si passano accanto. Ma quale tempo se non questo qui? Questo nostro, di sempre, come se il salutare con la mano ogni volta fosse solo un rito inutile per chi, nel profondo , non si separa mai. Quella sera andai da lui. Ci andai come andare a casa, anche se io non ho una casa. Sempre ricomincio, sempre cado, sempre sopra un filo, sempre senza dirmi che la mia casa ha il suo nome. Mi fu vicino subito. Da dietro il banco del bar quasi saltò. O forse non quasi, sì, mi pare che saltò per venire a stringermi. Non potevo giustificare ai miei pensieri, alla mia pelle, alle mie mani quell’abbraccio, così non chiesi il permesso a neanche una parte di me e mi arresi a lui come fosse respirare. Mi prese la mano e mi disse ridendo che ero buffa così truccata. Quei capelli così lisci e la pelle bianca, le labbra rosse di vetro colorato, come bambola in vetrina, a lui facevano sorridere nell’idea, condivisa, che la vita sia scegliere una maschera ogni giorno. La filosofia del travestimento chiara solo a noi che, un tempo, finivamo sempre per spiegare ai polli come si fa a volare.
«Chi eri oggi?»
«Non ricordo mi pare ci fosse un palco da qualche parte.» Ce n’è sempre uno, pensai.
Poi le lacrime così, senza piangere, come quando si è piccoli e si va da papà facendogli vedere la sbucciatura al ginocchio, senza dire una parola e senza smorfia, solo con le guance rigate. E con quelle lacrime così grandi che sembravano persino inventate. O forse invece proprio le inventai, solo perché me le asciugasse lui. Non è una domanda che ora voglio fare al mio cuore, ‘ché se fu un inganno quel che feci quella sera, per sempre così lo terrò. Gli dissi della ferita, ma si accorse che la cicatrice che gli indicai era troppo piccola per avermi procurato chissà quale dolore. Così aggiunsi altre ferite e tutte insieme divennero un male da curare. Lo curò. «Così poi potrai tornare a fare il verso del leone. O della scimmia, se ti fa più comodo.» Spavalderia e baldanza oggi, per le risa in pubblico di domani. «Perché non del pavone, allora?» Tutto fuorché un uccellino, certamente. «Sono venuta a farmi lisciare le piume», pensai. Me le lisciò e non aggiunse altro se non i baci. Mi portò fuori in cortile, nel retro del locale e quando mi prese per mano attraversammo i tavoli e gli sgabelli dove si brindava a San Patrizio, che diventavano silenziosi mentre passavamo noi. Nel tempo a lungo ci eravamo chiesti perché fossimo come un miracolo agli occhi della gente, fino al giorno in cui avevamo iniziato a sorriderne e basta, senza farci più domande. Fummo lì, a guardar da fuori le finestrelle colorate tutt’intorno e con la gamba, senza lasciarmi, come per dire «Sono qui dove sono sempre stato», sistemò a testa in giù le casse di birra così che potessimo sedere l’uno accanto all’altro. Volli nascondere il viso, subito quello. Infilarmi in un posto piccolo tra la linea ossuta del suo profilo e quel punto del collo da cui potevo sentirlo parlare piano senza riuscire ad ascoltare la voce. Solo quel vibrato che mi pare dicesse che ero bella di una bellezza che poteva vedere soltanto lui. Non lo disse. E così con la faccia piantata contro di lui, bofonchiai che avevo immaginato di sentirgli dire una cosa che non avrebbe detto mai. Sorrise e lo seppi perché mi spostò un po’ i capelli quella fossetta che mostra sulla guancia destra quando sorride. Una sola, come vuole la fisiognomica di chi fa sempre le cose a metà. In quella fossetta ci infilai le cose per cui ero arrabbiata, poiché lui me lo permise. E finii stremata, vittima come m’ero disegnata sotto i piedi di chi s’era approfittato di me, piangendo sulle sue labbra. Le labbra sul viso e i capelli e le mani e le ciglia e la pioggia, che non c’era, ma sembrava. Così quando le lacrime mi arrivarono alla bocca, ed eravamo così mischiati da non lasciarmi un solo fiato che fossi sicura fosse il mio e non il suo, gli dissi sottovoce che doveva ricordarsi di non baciarmi sulla bocca, ‘ché non era nei patti. Poi pensai che nessuno dei due aveva mai scritto neanche una delle regole che avevamo rispettato nel tempo. Ma lui aveva detto «Va bene». E io m’ero aggrappata ai brandelli di quel petto che sentivo battere, ridotto così da troppe botte prese nel tempo. Gli chiesi: «Ti ricordi quella notte di tanti anni fa, in cui ti chiesi di baciarmi e tu mi dicesti di no?» Poi aggiunsi: «Uno dei due, a turno, è sempre più saggio dell’altro.» Rise ancora e io, aprendo un occhio, attraverso le maglie del pullover che indossava, vidi la luce verde diffusa nel locale arrivare annebbiata a confondersi con l’incavo nelle due linee tra il suo naso e le sue labbra. E le labbra, quelle, dissero: «Eppure il meno saggio di noi due riesce sempre a convincere l’altro.» Le guardai, poi non potei guardarle più. E mi lasciai consumare piano, prima approfittando di quella distanza piccolissima nello sfiorarsi che ancora era salvezza e che mi concesse il tempo per perdonarmi, poi nel contatto lento, che trasformò la carne in miele. E io restai lì, fuori, e lui lì con me, come due che hanno perso, a guardare, stretto in un abbraccio, quel qualcos’altro da noi, di cui però potevo sentire il calore, il velluto, come fosse sabbia calda sotto i piedi in un pomeriggio di luglio. Sentivo per lui e lui sentiva per me. Cademmo e tornammo su, come leggeri sulla superficie oleosa d’un fiume, e intorno forse un cicalare fitto e il battito d’ali d’una libellula. Poi le parole di caramella, tanto sottili da poter passare attraverso quei sospiri e lui mi chiese quanto potevo restare ancora, prima di andare via. Dissi, non so per quale motivo, «Undici minuti» ma poiché ci eravamo smarriti in un tempo non misurabile, si allontanò solo per guardarmi negli occhi e contare il tempo. Mi guardò così forte che quasi mi fece male e disse: «Ti bacerò per undici minuti, allora. Poi andrai via. Giacché questo abbiamo.» Io pensai che fosse una buona idea. Così chiusi gli occhi come per dirgli dove mi aveva fatto male e lui mi baciò quegli stessi occhi, che erano anche i suoi e io li baciai e poi fummo come uno. E io sentii l’amore. No, io lo fui. E mai, mai in nessun altro modo, per nessun motivo che non fosse quello stesso motivo nostro, che tuttavia non conosceremo mai, nessun altro ha potuto mai, perché l’amore è solo quello e non esiste una versione alternativa, anche solo immaginata di quello spazio bianco in cui confondersi e non esserci più, o esserci troppo, ma senza poter usare i sensi, perché inermi, quando tutto scompare e non c’è nulla da guardare, o toccare o ascoltare, o pensare, se non l’amore. Un assioma. Non lo so dire ancora oggi, ma mi tremano le gambe ogni volta che ci penso e penso che è sempre lì, quel qualcos’altro da noi, e che non c’entra niente con la mia vita, né con la sua, né con quella degli altri che ogni giorno parlano, dormono, vivono, sorridono e si arrabbiano con noi. E non c’entra niente con nessuno e con le nuvole, e con le lenzuola stese odorose di fiori, e con la luce del tramonto, e con i sassi e il muschio e il sesso e le labbra di vetro rosso e questo mondo, perché, giuro, non è una cosa di questo mondo. Quando finimmo di essere amore, nel cortile del suo bar, quella sera a San Patrizio, restammo comunque noi. Come lo eravamo stati prima di allora, e come lo saremo domani. Undici minuti, dicemmo. Non ne cercammo mai conferma, semplicemente decidemmo che erano passati. Poi ci scompigliammo i capelli prendendoci un po’ in giro, fino a riderne come pazzi. Restai invece ancora dieci minuti e ci raccontammo, come ogni altra volta avevamo fatto in quei pochi incontri negli anni, dei guai, dei progetti, delle conquiste, delle famiglie, dell’ultimo libro letto e di un film che non avremmo mai visto insieme. Ma sarebbe stato bello poter andare al cinema e magari dire agli altri, non solo ai passanti che sempre ci spiano invidiosi e meravigliati, di essere ancora così amici, come davvero lo siamo. Tornai a casa e fui felice per noi. Ma, se ci penso oggi, sono felice davvero per tutti. Anche se loro, i tutti che immagino affaccendati in mille cose ogni giorno, come me, forse non lo capiranno mai. Io sono felice per loro e per la loro possibilità nascosta di gioia. Ma basta, ho finito. Sarà meglio ritirare i panni, le altre cose di questo mondo e rientrare in casa. Sta per arrivare la pioggia e voglio guardarla in silenzio al riparo da tutto questo.

And the chorus goes:

(i'm a female rebel)  
Sleeplessly
Embracing
You

A me le Rossana fanno schifo anche se sono rimaste solo quelle.

 Li ho sempre un po’ invidiati io, quelli che amano le Rossana. Che poi secondo me a loro non piacciono davvero. Già dolce, fatta di caramella caramellosa, in più con dentro la crema zuccherosa. Ma per favore. Orsetti gommosi, quelli verdi prima di tutti. M&M’s rigorosamente con la nocciola, meglio se rossi. Il Liquirone e le Goleador. Cocacole frizzanti.  Le Fruit Joy, se proprio non si vuole rinunciare al vintage e tutt’al più una Halls agli agrumi, per stare al passo coi tempi. Ma le Rossana no, fatemi il favore. Un po’ come i pastiglioni alla menta fresca che avevano in bocca la consistenza dell’aspirina americana. Va be’. Comunque, finite tutte le altre, quando nella ciotola sono rimaste solo tre Rossana, in molti dicono di sì, anche se la sera prima stavano dicendo a un amico che piuttosto che mangiarsi una Rossana si sarebbe lasciati morire di fame. Poi invece, in preda all’ipoglicemia, in piena carestia di Big Fruit, se le ciucciano come fossero gommose ai frutti rossi. La vita felice (immaginata) è dei possibilisti e io non lo sono. Non dico felice. No, no perchè? Io sono felice, ma non tutto il tempo, perchè non sono possibilista. Semplicemente quando non ho quel che voglio, come lo voglio, non voglio nulla. Rossana? No grazie. Ma guarda che c’è solo questa eh. E pazienza, farò senza. Insomma sono felice solo quando lo sono davvero. Quando non lo sono, sono normale, ma se mi chiedono “come va?” dico che va di merda. Però lo dico sorridendo, perchè il buonumore non va mai perso. Eppure, Rossana a parte, ho passato una vita ad essere accomodante. Ciao, buongiorno, ma certo, tutto bene, sono d’accordo, facciamolo, come vuoi tu e se ci tieni per te tutto. Ma perchè invece non ho detto più spesso: fanculo no, non mi piace,non mi muovo, tienitela te sta Rossana che a me fa schifo e muoio di fame piuttosto? Me ne sto seduta qua, con le gambe incrociate che non si incrociano mai perfettamente perchè mi fanno male le ginocchia dopo un po’, a guardare fuori la primavera che è esplosa in questo enorme parco che un tempo chiamavo casa. Una prigione dorata in cui mi sono cacciata di nuovo. Maledetta me. Vuoi una Rossana? No, grazie. Poi ti passano una Rossana con la carta blu, ingannevole e fedifraga, e tu dici “ah be’ allora se ha la carta blu”. E invece no. Bocca chiusa a sigillo e dieta per non cedere al richiamo dello zucchero. Perchè per imparare a dire  “no fanculo, neanche se mi ammazzi”, devo pensare insistentemente a quell’unica eccezione della mia infanzia. La missione è aumentare il numero dei limiti invalicabili e fare leva su quel principio che è la sostanza di cui sono fatta io, e anche i miei sogni: l’onestà intellettuale. Le cose sono cambiate quando ho smesso di  desiderare intensamente e mi sono chiesta perchè desideravo. Fai la prova, su. Voglio questa cosa. Sì, ma perchè la voglio?  E diventi potente in un secondo. Niente orsetti gommosi? Pazienza, tanto non è che volevo una caramella, volevo quelli. Rossana o pesce al forno a quel punto pari sono. E’ una gran presa di coscienza. Non è che faccio festa. Anzi, c’è grande soddisfazione nel dire che sto di merda. Fredda come il marmo sono. Muta come un pesce divenni. Immobile come un sasso mi trovarono. No no no. Anche se intorno a me, in una malconcia posizione di Buddha, uno scroscio di carte di caramelle rosse impedisce ai miei pensieri di fluire. Mi scusi non ho il resto.  Le do anche 400 caramelle “. “in cartone?!?” “no!… sciolte…”. Tenga pure il resto, e tanti saluti.

La La Love ovvero «Vorrei che ci si potesse amare»

Ma il Magico Accordo è un’illusione. Sai Hubbell, con gli anni sono diventata sempre più certa delle cose di cui sono certa, eppure qualche bugia continuo a raccontarmela. Sono K-Katie, e anche Jimmy, ma oggi mi chiedo se mai potrei essere Seb. E’ un talento quella volontà di amore che trascende ogni altra urgenza. E io quel talento non ce l’ho. Facciamo ordine, adesso che il puzzle è completo.

jimmi_hubbel_seb

La La Land è arrivato a conferma dell’unica soluzione che ho sempre considerato plausibile: se sei così la resa è inevitabile, ma c’è un universo in cui le cose sono andate diversamente e solo lì quel Magico Accordo continuerà a suonare indisturbato.

 

In My Secret Life (Ode To Leonard Cohen)

Qualche volta mi metto per gioco a contare le canzoni che conosco. Perdo sempre. Nel senso che mi fermo alle prime dieci che mi vengono in mente, ci faccio una playlist su Spotify e poi penso a una trasmissione per la diretta in radio. Quando non esisteva Spotify, ci facevo un cd. E prima ancora una cassetta. E’ solo il mezzo che cambia, credetemi, a noi deejays, non ce ne frega niente del tempo che passa e della tecnologia che avanza: abbiamo sempre un cuore di pezza, che continua a scucirsi perchè a volte si gonfia a dismisura. Che strano lavoro, questo nostro. E’ un segreto continuo. La verità è che io non voglio lasciare l’Italia per non dover imparare a fare questo lavoro in un’altra lingua, perchè non c’è nessuna lingua come l’Italiano. Puoi dire una cosa e significarne un’altra, celare un segreto eppure sembrare trasparente come l’acqua. Alcuni amici che fanno questo lavoro mi capiranno. Ci intendiamo. Ognuno conosce i segreti dell’altro solo dall’ascolto delle canzoni scelte, o dalle frasi pronunciate tra un disco e l’altro. Ognuno però, per un tacito accordo, si fa i fatti propri, anche se qualche volta ci mettiamo a vicenda quei like su facebook che significano “Io lo so ma non lo dico a nessuno”. Anni fa erano una pacca sulla spalla, non cambia mica nulla. In questo continuo lavoro di segreti nascosti ci sono tre canzoni d’amore che spiegano il mondo, secondo me. No, non è vero, sono molte di più. Ma queste tre sono le conversazioni che uno col cuore di pezza fa con se stesso in alcuni momenti fuori dal tempo. I momenti fuori dal tempo non capitano tanto spesso. Per fortuna, forse. Perchè quando ti capitano ti cambiano talmente tanto la vita che poi il resto del tempo ti sembra per sempre inutile. E’ come quando stai facendo una cosa importante e all’improvviso tutto si ferma e rimani da solo col mondo immobile intorno a farti domande strane e a guardare come se non avessi mai visto.
La prima è una canzone di Tom Waits che si intitola I Hope That I Don’t Fall In Love With You. Una volta discussi con Ghè, che è un grande autore: lui diceva che per me i testi delle canzoni contavano troppo. Ma poi quando parlammo di questa canzone lui fu d’accordo con me. In quella canzone Tom Waits nella mia testa fa il barista. Uno così o suona il piano o fa il barista. Diciamo che suona il piano, ma per me fa il barista. La cosa certa è che lavora in un locale. E in quel locale con lui lavora una ragazza che forse serve ai tavoli. L’intimità che si crea tra quelli che lavorano insieme in un locale, e si ritrovano a parlare e bere e giocare a carte insieme prima della chiusura è un’intimità senza speranza. Ci si innamora per forza. Il mondo fuori diventa piccolissimo. Poca gente, poco rumore, tante luci e sogni lucidi. Gli spazi si allargano, le parole diventano pesanti, si dice solo il vero, si mangiano cose piene di calorie, si crede a tutto e si immaginano mondi bellissimi. Non so come è che succede, ma succede così e dopo qualche tempo tra un locale e l’altro, quando capisci come funziona il gioco, e dopo aver ricominciato daccapo mille volte, arriva un momento in cui, seduto su uno sgabellino, in un angolo dici a te stesso, guardando verso di lei “Spero solo di non innamorarmi di te”. Però è già successo, è già tardi. Ecco, quella canzone è quel momento. E se io ci ripenso adesso, quell’attimo in cui speri di non esserti innamorato di una persona, anche se sai che quando tornerai a casa ci penserai, e ti metterai nel letto e sorriderai per quella cosa che ha detto, sapendo che era per te e solo per te, ecco quel momento è tutto, e io vivrei altre venti vite solo se mi dicessero che in ognuna di quelle ci sarà almeno un momento così. E Tom Waits ci ha scritto una canzone. Beato lui. Ho sempre pensato sì, beato lui, che l’ha vomitato in una canzone quel pensiero e non ci deve sempre tornare ogni tanto, riascoltandola, come faccio io.
La seconda canzone che spiega il mondo l’ha scritta naturalmente Bob Dylan, ed è If You See Her, Say Hello. Bob Dylan mi sta tantissimo antipatico e a quella storia che dice che è morto tre volte e ogni volta è stato rimpiazzato da un sosia diverso, io ci voglio credere, perchè non posso credere che uno così antipatico abbia potuto scrivere una cosa tanto bella. E’ la canzone che ti canti quando pensi che lei se ne è andata perchè è colpa tua, e che ha fatto bene ad andare via, ‘ché almeno lei s’è salvata, e che quella separazione ha salvato pure te. Ma in cuor tuo speri che lei stia di merda e stia soffrendo senza di te. Speri che qualcuno gli dica che t’ha incontrato e, anche se a quella persona dirai “Falle credere che non mi manca affatto” ti farai un film su come le racconteranno di te e magari lei sospirerà. Tanto a te che t’importa? T’importa, maledetta. Il punto è questo, ed è l’unico punto che abbia mai contato al mondo: ci sono persone che stanno insieme per sempre, anche se si lasciano, anche a mille miglia di distanza. Quella cosa delle separazioni e dei matrimoni con altri, e poi la vita che passa, e gli acciacchi e cento figli, lavori diversi, uno ricco e uno povero, o uno nero e uno bianco, insomma tutto questo semplicemente non è importante. Arriva qualcuno che c’era da sempre, ci parli mezz’ora, poi cammini un po’ e ti racconti la vita, fai l’amore o anche no, tanto è lo stesso, perchè ti riconosci la pelle l’uno nell’altro e non è che te lo spieghi, è un assioma, è solo così. Poi va via, ma continua a esserci. E non c’è nessuna possibilità che di quell’alchimia ti sia accorto solo tu e lei no. Così in isolati e solitari moti di ribellione nei confronti di un Dio, la cui esistenza è provata già solo per il fatto che deve pur esserci un forza superiore che ha pensato tale beffa , altrimenti non si spiega, ti dici che sei solo tu a pensare a lei e che speri stia bene. Quante balle, tutte in un’unica, sola, meravigliosa canzone. Maledetta di nuovo. Lei e la canzone.
La terza e ultima è il motivo di questo post.
L’ha scritta Leonard Cohen che ha scritto molte canzoni bellissime prima di questa, che è del 2001 e si intitola In My Secret Life.
L’altra mattina quando ho letto della sua scomparsa mi sono molto commossa, più che per la sua assenza, motivata comunque dall’età, per il suo saluto al mondo, un po’ come Bowie aveva fatto qualche mese fa. Avevo letto in radio un’intervista in cui presentando il suo disco aveva detto che davvero si trattava di un saluto, che era arrivato il suo momento e che quella era un po’ un’elegia a se stesso. Forse la vanità ci salverà più che la bellezza? Ci ho pensato, perchè sia lui che Bowie non hanno voluto che fosse qualcun altro a salutarli, ma giacché c’erano hanno fatto un gesto del tipo “Scusa, non conosco nessuno che sappia farmi il discorso funebre come me lo farei io, quindi: eccolo.”
Giusto.
Se muoio stanotte, per colpa di questo sushi che ho sullo stomaco, facciamo che questo post è il mio saluto al mondo e che la mia canzone sarà If You See Her, Say Hello.
Ma se avrò invece tempo per ancora far finta che sia in un modo diverso da come alcuni giorni sono, suonerò ancora questa In My Secret Life. E’ la canzone della soluzione, io credo. Mio cugino Johnny, che amo molto, mi ha insegnato tempo fa una cosa: “Devi fare come se”. Quando la vita non è esattamente come vorresti tu, devi fare come se lo fosse. Nel cuore di pezza ricucito, custodisco una vita parallela, una vita segreta, in cui alcune cose sono andate diversamente da come ricordo. In questa vita segreta a volte ho tempo per sedermi sulla spiaggia, per ridere come facevo in quei giorni che non dimentico. Per essere ancora la bimba piccola di mio papà. Nella mia vita segreta ci sono tante cose di me che ora non mostro più. Ognuno, io credo, ha diritto a una vita segreta. Per questo non dirò di più e solo la suonerò domani in radio.
Poi magari un collega metterà un like alla playlist e io saprò che è anche un po’ la sua.
Ma, giuro, non lo dirò a nessuno.

In my secret life
In my secret life
In my secret life
In my secret life
I saw you this morning
You were moving so fast
Can’t seem to loosen my grip
On the past
And I miss you so much
There’s no one in sight
And we’re still making love
In my secret life
In my secret life
I smile when I’m angry
I cheat and I lie
I do what I have to do
To get by
But I know what is wrong
And I know what is right
And I’d die for the truth
In my secret life
In my secret life
Hold on, hold on, my brother
My sister, hold on tight
I finally got my orders
I’ll be marching through the morning
Marching through the night
Moving cross the borders
Of my secret life
Looked through the paper
Makes you wanna cry
Nobody cares if the people
Live or die
And the dealer wants you thinking
That it’s…